Le sette e mezza di un giorno d’estate, il sole ancora alto, pensi ad Arianna che è partita da quarantotto ore. Ciò che resta di lei: un festone di buccia d’arancia nel cestino, la decalcomania di un assorbente, un tenue profumo, come un retrogusto dell’aria. Lo avverti solo dopo aver ispirato a fondo, e ti rimette sulle sue tracce. Inspiri di nuovo, il sentore è svanito, poi eccolo, inerte, avulso come una coda di lucertola tra le dita. La sua presenza persiste nel piccolo appartamento in Rue Coustou, non diversamente dalla luce, già postuma. Le cose si ostinano a non finire. Presto anche qualche stella morta invierà alla terra il suo segnale luminoso. La musica è iniziata da un po’. Arriva da Rue Lepic o forse Boulevard de Clichy. Di là, nella camera che occupava Arianna, senti Jacopo che si prepara, non lo vedi da ieri sera. Di giorno vi separate, lui va in cerca di vinili e tu setacci tutte le librerie che trovi. Spesso ne riemergi con uno, due libri in più. Finché c’è stata Arianna non hai messo piede in libreria. È forte la tentazione di concludere che tutto, intorno a te, ti tirava per la giacca (per modo di dire, perché nei giorni più caldi di una delle estati più calde di sempre indossi una maglietta, dei pantaloni di lino, dei mocassini che ti ha regalato Arianna) e la vita era troppo eccitante per perdere tempo con una casa degli specchi, dove hai il sospetto che, in fin dei conti, l’immagine che ti perseguita sia sempre la tua. La presenza di Arianna satura i colori e attenua i contorni che intrappolano le cose, ne vietano la trasformazione alchemica. All’improvviso sei circondato da uno spazio abitabile, da un’umanità interessante che vuoi conoscere, da lontananze da dipanare. Prima delle otto tu e Jacopo siete pronti. Dovete incontrarvi con un suo compagno di scuola, anche lui a Parigi per una settimana. Non capita spesso che tu e tuo fratello usciate insieme, non la sera, non per cenare e poi andare a bere qualcosa, non mentre della musica ad alto volume proviene da vari punti della città, e intorno a voi iniziano a sciamare gruppi di ragazzi, il cui passo si sincronizza inavvertitamente con il ritmo circostante. È già l’attacco di un ballo. Decidete di mangiare in fretta nel Marais (stabilire il percorso in metropolitana con il minor numero di fermate e trasbordi è come risolvere un problema di scacchi). Il tempo di trangugiare un croque qualcosa e siete seduti a un altro tavolino in attesa di un drink. Prendi un Irish coffee. Jacopo sorpreso ti chiede se sai che cosa sia. Rispondi che l’hai già bevuto qualche giorno prima con Arianna. Non gli dici che è una piccola commemorazione. Secondo un tuo principio non verificato, se il whiskey ti storta, il caffè ti raddrizza, ma non dici neppure questo a Jacopo e al suo amico perché potrebbero ridere della tua inesperienza. La verità è che, sotto sotto, speri che l’alcool faccia il suo corso qualunque esso sia. Che potrai sbarazzarti delle tue inibizioni. È più di questo, in realtà. Quello che speri è più simile a un annullamento del sé come lo predica il buddismo. La vocina che pigola «io, io», a volte con tono piagnucoloso, a volte ansiosamente interrogativo, chiedendo conferma di essere stata interpellata, si zittirà.
L’inferno non sono gli altri. L’inferno sei tu, è non poter uscire dalla cella d’isolamento della tua mente, ripercorrere il solco che con tutti i tuoi andirivieni hai scavato nel pavimento, come un asino attaccato alla macina. Bevendo il tuo Irish coffe pensi che forse vorresti per una volta ubriacarti e che hai uno strano modo di complicare un desiderio piuttosto semplice. Quando vi alzate dal tavolino, inizia il vostro pellegrinaggio attraverso Parigi. Vi muovete a casaccio seguendo altri ragazzi che sbandano in cerca di un epicentro. Vi spostate verso l’Île de la Cité, ma è una direzione vaga come l’Oriente verso il quale dirigevano le proprie carovane gli antichi viaggiatori. Tra una fonte di musica e un’altra ci sono delle zone di transizione, la melodia si sfilaccia e senti la pulsazione di un contrabbasso, sempre la stessa corda pizzicata con veemenza, il cuore in gola. Non sai se il whiskey ha fatto effetto, ma già limitarsi a passare, essere una presenza passeggera, e come sottratta alla gravità, è un sollievo. Vorresti trasferire tutta la tua coscienza nell’occhio, nei recettori della retina che registrano la fantasmagoria in cui si trasforma il mondo se di tutto non resta che un segnale luminoso, il nucleo spento da secoli (i riflessi spezzati dei neon nelle pozzanghere che un temporale ha lasciato dietro di sé). Ti chiedi se ce la farai ad assorbire tutto. La realtà è così plurale. Ci sono ragazze in minigonna e top che pencolano sui tacchi. Per non cadere devono conficcarli nell’asfalto come rompighiaccio, e solo allora possono escogitare un altro passo. Ragazze in abiti maschili extralarge che fumano canne (a te, in verità, quell’odore ricorda la puzza che sfiatano i vecchi tram di Milano quando aprono le porte alla fermata). Un ragazzo in canottiera che si porta in giro uno stereo a forma di manubrio, e quando incrocia lo sguardo di un passante finge di fare i pesi. Ragazzi che ridono, ragazzi che piangono, ragazzi che piangono e ridono, come succede ai bambini che, durante una crisi, si lasciano distrarre da un’esca qualsiasi e all’improvviso smettono: il tempo li ha già ricuciti. La prima tappa la fate fuori da un locale, un bistrot che per la circostanza è diventato una discoteca. Alcuni tavolini sono stati spostati, altri rovesciati, sui soli che siano rimasti al loro posto sono saliti un ragazzo e una ragazza, lui un adone nero, con un ombretto metallizzato intorno agli occhi e uno smalto turchese sulle mani, lei a malapena diciottenne, in un sovrappeso che gli shorts e la camicetta aperta rendono evidente. Un ragazzo in adorazione della cubista steatopigia si aggrappa al tavolino quando le tumultuose movenze di lei ne mettono a repentaglio la stabilità. Jacopo e il suo amico, al quale a questo punto tanto varrà dare un nome, diciamo Edo, Jacopo ed Edo attraversano la ressa dei ballerini senza posare lo sguardo su di loro per più di una frazione di secondo. Tu li segui un po’ in ritardo, stupefatto. Arrivato al bancone del locale, capisci che i due intendono prendere un petit verre di tequila, e vogliono offrirlo anche a te. Quindi ti ritrovi a buttar giù, pensi si dica così, il contenuto di un bicchiere poco più grande di un ditale. Un certo disgusto per il sapore dell’alcool, un bruciore non del tutto spiacevole in fondo alla gola ed è già finito. È apparentemente tutto quello cui vi danno diritto i sei euro spesi. Per replicare serve che Edo ne sborsi altri sei ricambiando la generosità di tuo fratello. Prima che tu possa completare la simmetria e offrire un terzo giro, vieni trascinato fuori da Edo che ti afferra per la spalla, una familiarità che non ti senti di mettere in discussione. Proprio mentre varchi la soglia del bistrot, prima di tuffarti nella folla, fai in tempo a riconoscere in uno specchio oblungo una ragazza, di cui distingui solamente le estremità: la crocchia trafitta da un lapis e le caviglie scoperte dai leggings neri, un paio di Vans sdrucite ai piedi, nere anch’esse (non puoi vederle senza avvertire un certo pathos, come se fossero le scarpe di un naufrago portate a riva da un’ironica marea a distanza di giorni dall’incidente). Una volta fuori è di nuovo un’altra storia. Vi allontanate di buon passo non più verso l’Île de la Cité, ma, con un piccolo aggiustamento della rotta, verso Les Halles, l’idea è di Edo (conosce un posto vicino alla scuola del Centre Pompidou nella quale suo padre insegna composizione ecc.).
La verità è che vi trovate a camminare per altri venti minuti, venti minuti durante i quali incrociate decine di assetati pellegrini come voi e almeno quattro assembramenti non meno movimentati del primo. Cerchi di scacciare l’impressione di aver visto i capelli e il lapis di Arianna con le scarpe di Arianna, e le caviglie di Arianna, uscire dal bagno di un bistrot del Marais. È stata un’illusione, un’immagine troppo a lungo coccolata dalla memoria. Torni a essere un drone che sorvola sull’animazione circostante. A momenti guardi il cielo (c’è una luna a metà, come cancellata con la gomma, con ancora lo sbaffo della cancellatura). Sarà la tequila, ma ciò che percepisci è lo sforzo della tua coscienza, circoscritta, puntiforme, per assumere le dimensioni del cosmo, cioè fare una specie di spaccata e abbracciare l’umanità, gli dei, le galassie, i dinosauri, le glaciazioni… Siete arrivati a destinazione, o così sembra. Non avete trovato il posto che cercava Edo e vi siete aggregati a dei ragazzi che si dimenano intorno a una postazione da deejay, in una delle poche aree ultimate sopra la voragine del vecchio mercato. Il tutto ha un’aria improvvisata che fa sentire a casa. Jacopo e il suo amico si mettono a ballare e, a gesti, ti fanno capire che dovresti fare altrettanto. Ti suggeriscono le mosse non senza un certo piglio didascalico. Per accontentarli ti mantieni in movimento dondolando da un piede all’altro. A un tratto un tipo con dei pantaloni di svariate taglie più grandi del normale passa una bottiglia di vetro a tuo fratello, che ringrazia, la porta alla bocca, prende una lunga sorsata e la dà a Edo. Nel giro di trenta secondi la bottiglia è in mano tua. Devi decidere che cosa fare. Pensi: «Fa’ come fanno gli altri». Bevi e la passi al primo che ti capita a tiro, una ragazza, che, però, rifiuta, tu insisti, non puoi rimanere con la vodka, non sai di chi sia, qualcuno dovrà pur prenderla. Per fortuna, come un deus ex machina, si materializza il tipo con i vestiti oversize e si rimpossessa della bottiglia. Puoi riprendere a oscillare, prima da una parte, poi dall’altra. È più o meno a questo punto che la rivedi. A una ventina di metri da te sta ballando al centro di un cerchio di persone. Indossa lo stesso vestito a fiorami che aveva quando siete andati a Versailles, gli stessi sandali, con i lacci che si avviticchiano ai polpacci. Intorno a lei ci sono solo sconosciuti, ma è chiaro che è la presenza di Arianna a tenerli inchiodati, in una configurazione esatta come quella di un reticolo cristallino. Non ti fai ulteriori domande, stabilisci che la raggiungerai al tuo uno due… È Jacopo che ti spinge via questa volta. Dice qualcosa a proposito della polizia. Dice di correre e tu corri. Arrivate quasi fino al lungosenna, davanti alla chiesa di Saint Germain-l’Auxerrois, dove, senza darti spiegazioni, Jacopo ti fa capire che puoi fermarti e rifiatare. Riprendi a seguirlo, ovunque sia diretto, ma non presti più attenzione a ciò che ti circonda, la chiesa gotica, le tute aderenti delle ragazze che incontrate per la strada. Sei come un bambolotto con gli occhi rovesciati. Ti neghi cocciutamente al mondo esterno. Puoi soltanto passare in rassegna tutto il tempo trascorso con Arianna, che poi è una vita intera perché vi conoscete da vent’anni. Prima vedendola ballare hai pensato che forse avresti anche potuto dirle la cosa ridicola che da tempo ti si è incastrata lì e non se ne va. Se ne parlassi con Jacopo ti rivolgerebbe un’occhiataccia tra lo sprezzante e l’impietosito, come è giusto che un materialista guardi un bigotto. Ti vengono alla mente i versi di una poesia imparata chissà quando (Cos’è un amore se non sei riamato?/Un tutto per te solo che per tutti/è nulla: non si rapprende il suo fiato/nell’aria di dicembre né dà frutti/in tarda primavera)… Quartier latino! È questa la nuova parola d’ordine, la meta definitiva che viene fissata da Jacopo, ma prima un ultimo shot di tequila. Non hai più la forza per opporre resistenza. Attraversate il fiume che per un attimo ti riporta ai tuoi deliri sull’infinito contenuto nell’infinitesimale. Segui i tuoi accompagnatori in un bistrot che sta per chiudere e bevi quanto ti tocca; ma ecco che qualcosa ti distrae, sarà che il Quartier Latino è nel pieno della festa, sarà che l’alcool ingerito ti ha avvicinato alla liberazione dal ciclo delle rinascite, ritrovi entusiasmo per lo spettacolo che ti si offre. È con una nuova determinazione che ti butti, con Jacopo ed Edo, nella mischia. Incominci a ballare, non ripeti il passo basculante di prima, compi movimenti scoordinati, ridicoli, la sensazione è quella di lanciarsi a tutta velocità preparandosi allo schianto, tanto quando avverrà non ci sarà nessuno a prendere nota dei danni, non il tuo insonne super-io che si è miracolosamente appisolato in servizio. Alla fine la vedi, Arianna che avanza verso di te ancheggiando con fare insinuante