Quando Samia è arrivata a pranzo io non avevo ancora preparato nulla perché mi stavo occupando del gatto. Il corriere aveva appena consegnato una fontanella automatizzata: praticamente un cubo di plastica con il motore che purifica l’acqua e la canalizza in una struttura a forma di margherita. Non potevo aspettare di aver pranzato prima di attivarla. Se l’operazione fosse andata a buon fine, mi sarei sentita molto meglio con me stessa, in grado di godermi il pasto e la conversazione, altrimenti avrei continuato a pensarci, alla fontanella, alla paura di non riuscire a montarla, all’ansia di aver comprato un modello sbagliato: forse era meglio quella in acciaio a forma di rubinetto? Chi pensavo di fregare con quella margherita, leziosa e fatta male? I gatti hanno gusti estetici? Non lo so, anche se non lo escluderei. In ogni caso speravo che la Cucci l’avrebbe amata, che vi si sarebbe abbeverata con entusiasmo, e che idratarsi le avrebbe reso le vie urinarie, sempre fragili nei gatti – e anche in me – più sane e resistenti.
Entrambe avevamo da poco sofferto di cistite. Io stavo finendo di scrivere un saggio, mancava una settimana alla consegna e la comparsa dei sintomi stava trasformando un momento che avrebbe dovuto essere bello – finalmente ho finito il libro! – in un’impresa dolorosa e esteticamente spiacevole. Passavo ore a scrivere seduta in bagno, con il laptop che lasciava aloni rossi sulla pelle e una brocca da due litri d’acqua sempre a portata di mano. La Cucci mi guardava con quella tipica espressione della Cucci, tipo “mah…”.
Pochi giorni dopo aveva cominciato a stare male anche lei.
Senza consultare il medico – tanto sarebbe stato inutile, ormai ci vogliono almeno tre settimane di attesa per una visita – e nonostante le analisi fatte in casa non avessero riportato evidenze di infezione, avevo preso l’antibiotico: una busta monodose di Monuril importata dall’Italia. Sapevo che non si trattava di una cistite qualsiasi, ma della mia cistite: un peso al basso ventre senza apparenti cause organiche, un male invisibile e indimostrabile che continuava a ripresentarsi e a stanziare nel mio corpo mentre io arrancavo dietro alle sue origini.
“Secondo me è che stai finendo di scrivere il libro” mi aveva detto Alberto.
“Appunto!” avevo risposto. “Mi mancano pochissime parole ma non riuscirò a scriverle perché sto male, e quindi non riuscirò a finire in tempo, anzi finirò in questo modo indegno, finirà che pubblicherò un libro scritto male e non me ne faranno scrivere altri, dovrei essere contenta, e invece, vedi, sto male, sto sempre male”.
Mi sembrava che il dolore sarebbe durato per sempre.
Il tempo e le parole invece stavano per finire.
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Lo studio Medivet Greenwich è un prodigio di efficienza e cortesia, al telefono rispondono dopo due squilli e quasi sempre trovano il modo di fissare un appuntamento in giornata. Li avevo chiamati dopo aver notato gocce di sangue e urina sul pavimento, mi avevano subito fatto sentire accolta: “You can come this afternoon at 4pm, alright?”. Le cliniche veterinarie non hanno subìto gli stessi tagli della sanità pubblica, sono ancora dei milieux di cura, dove i medici conoscono gli animali per nome e si interessano alla loro storia singolare. Se non suonasse come un paradosso, si potrebbe dire che siano le uniche strutture mediche in cui tra dottori e pazienti intercorre un rapporto umano. Lyann, una giovane donna di Hong Kong che ha studiato ad Atlanta e vive a Londra da cinque anni, una “veterinaria di mondo” come dice Alberto, sa tutto della Cucci e le vuole bene: si ricorda i dettagli delle sue malattie e durante ogni visita dice “she is the best!” con il tono di chi constata un fatto incontrovertibile.
Quel pomeriggio aveva decretato: “She has got cystitis”. Alla reception mi avevano consegnato un conto di novanta sterline e una ricetta medica a nome: Cucci Bandinelli.
La Cucci aveva la mia cistite? Avevo appaltato il suo corpo per i miei sintomi? L’avevo resa succursale del mio inconscio? Oppure ero io a somatizzare il suo inesprimibile dolore animale?
La clinica veterinaria è l’unica istituzione sociale a riconoscere, seppur implicitamente, una sorta di filiazione tra me e il gatto, recuperando dall’assurdo l’ipotesi che tra noi ci possa essere un rapporto di trasmissione – se non genetica, almeno simbolica – e che quindi per quanto lei non possa aver ereditato i miei cromosomi – aver preso da me “gli occhi” o “il sorriso” – potrebbe tuttavia aver ricevuto il marchio della mia lingua. Insomma, se la Cucci porta il mio stesso cognome può darsi che porti anche la rifrazione del mio corpo isterico?
Un corpo isterico è un corpo che parla. Il concetto di “conversione isterica” indica il processo per cui qualcosa che non riesce ad essere simbolizzato nel linguaggio si traduce in un fatto del corpo. Quando c’è qualcosa che non riusciamo a mettere in parole, lo mettiamo in un organo interno, o nelle mucose, nei muscoli, nelle ossa, nelle vene, nei tessuti molli. Si tratta di una sorta di “metafora”: una forma di sostituzione in cui il sintomo fisico prende il posto del contenuto psichico indicibile (o inascoltabile). Aggirando i limiti dell’espressione verbale, esso si traduce in un fenomeno empirico, e restituisce un’estensione incarnata all’intensità immateriale dell’inconscio.
La Cucci aveva la mia cistite? Avevo appaltato il suo corpo per i miei sintomi? L’avevo resa succursale del mio inconscio? Oppure ero io a somatizzare il suo inesprimibile dolore animale?
Non lo so. La psicanalisi non si pronuncia sulla possibilità che il processo di conversione comprenda più di un corpo, e di individui appartenenti a specie diverse.
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La Cucci non sembrava per niente impressionata dalla fontanella, che pure avevo montato con maestria. Indifferente alla sete continuava a reclamare cibo battendo con le zampe sullo sportello della cucina.
“Perché ha sempre fame questo gatto? Scusa non le hai appena dato da mangiare?” Mi aveva chiesto Samia. “È che quando era piccola vivevamo con un gallese disoccupato e solo, che riversava ogni sua esigenza affettiva su di lei e che per vincerne l’amore le dava sempre i croccantini”, avevo risposto, con il tono involontario di una giustificazione.
Se la Cucci fosse vissuta senza umani, forse avrebbe avuto solo fame, e non anche desiderio di cibo, ma sin da piccola era stata esposta alle metonimie del linguaggio umano. “La Cucci cerca il cibo come i neonati cercano il seno materno, non è solo un bisogno ma anche un desiderio” ripeteva spesso Arturo, mio fratello, avvalendosi di categorie lacaniane. Avevo rivenduto la sua teoria a Samia, spiegando anche che negli ultimi anni la Cucci aveva sviluppato una serie di allergie alimentari. “Non si sa bene perché, forse perché ci mettono un sacco di riempitivi artificiali in questi cibi per gatti, con gli stimolatori d’appetito che creano dipendenza. O forse perché i gatti domestici sono nevrotici, forse se avessimo un giardino e fosse libera di andare e venire a piacimento non avrebbe bisogno di essere allergica al nutrimento… Però guarda anche io sono allergica e non si sa a cosa, a volte il sistema immunitario sbrocca così, a caso, senza senso”.
Sia io che la Cucci avevamo allergie multiple dall’origine incerta. Ci eravamo sottoposte alle prove allergologiche pochi mesi prima. A me non avevano trovato niente, e quindi andavo a tentoni, eliminando farine bianche e derivati del latte nei momenti peggiori, usando solo cosmetici ipoallergenici e prendendo dosi massicce di antistaminici nella stagione dei pollini. Gli esami della Cucci invece avevano evidenziato una forte allergia a manzo, pollo, riso, soia, carote, bietole, patate, cipolle, piselli, grano e miglio. L’unico cibo disponibile nel mercato (devo dire, limitato) del pet food inglese che non contiene sostanze nocive per lei sono delle scatolette 100% canguro prodotte in Germania con materia, suppongo, australiana. “Quoziente di sostenibilità basso, ma i canguri sono tanti e, mi sembra di ricordare, cattivi, e poi non credo li allevino in modo intensivo, quindi ecco, c’è di peggio”, avevo detto a Samia scolando la pasta. “Carolina, sei completamente soggiogata da questo animale”, mi aveva ripresa lei, con la sua voce lieve e autorevole. “Si vede così tanto?” avevo risposto cercando un’inflessione ironica. Samia non aveva riso né sorriso, mi guardava seria. “Non è sempre stato così” avevo aggiunto, come a mia discolpa, condendo le mezze penne di farro con l’olio della Lidl.
Era cominciato tutto pochi mesi prima, un mercoledì di novembre. Ero tornata a casa dall’università e la Cucci non mi era venuta incontro. Non aveva chiesto cibo. Era rimasta ferma in cima alle scale, rivolta verso il muro. Aveva emesso un miagolio spaventoso, un suono distorto, come una televisione a tubo catodico che non prende il segnale.
Fino a quel momento, il gatto per me aveva rappresentato una creatura metà bestiale metà angelica. Bestiale e quindi sana, con in dotazione un corpo in armonia con la natura, fatto per sopravvivere allo stato brado. Angelica poiché eterna, imperitura, un simbolo più che un essere vivente
Ematoma auricolare, come quello che viene ai pugili, aveva diagnosticato Lyann, si dice anche cauliflower ear, le è venuto perché si è grattata troppo e ha fatto scoppiare un capillare. Bisogna operarla. Anestesia totale.
Operazione 1. Antidolorifici. Antibiotici. Collare. Sangue. Antisettici. È per via di un’allergia trascurata. Allergia a cosa? Alimenti, fattori ambientali. Operazione 2. Antidolorifici, Antibiotici. Antisettici. Sangue. Sangue. Collare. Biglietti aerei per la Colombia: disdetti. Biglietti aerei per Firenze: disdetti. Il corpo del gatto ha una consistenza molle, il corpo del gatto ha bisogno di me. A Natale sole io e lei, io con la febbre e il mal di gola, lei si muoveva male e mangiava poco. Augumentin per me, Synulox per lei. Ibuprofene per me, Gabapentin per lei. Sciacqui per la gola con il Brufen per l’una, impacchi di Epiotic nelle orecchie per l’altra. La sera del 24 Dicembre abbiamo guardato Notting Hill, io per la seconda o terza volta, lei per la prima.
Fino a quel momento, il gatto per me aveva rappresentato una creatura metà bestiale metà angelica. Bestiale e quindi sana, con in dotazione un corpo in armonia con la natura, fatto per sopravvivere allo stato brado. Angelica poiché eterna, imperitura, un simbolo più che un essere vivente. Non avevo mai pensato che potesse andare sotto i ferri e prendere due pasticche la mattina e due la sera, che fosse imperfetta, vulnerabile e dipendente dalle mie cure. Non ero pronta ad assistere al deteriorarsi dei suoi organi interni.
Avrei dovuto vederla anche morire?
Hannah Arendt in “Vita Activa” scrive che il dolore è irrimediabilmente privato, cioè incondivisibile: privato, appunto, di una dimensione pubblica. Senza le parole che mediano, spiegano e sublimano, diventa anche ingiustificabile: non c’è teodicea nel regno animale
Gli animali selvatici vanno a morire soli e lontani, senza disturbo. La Cucci sarebbe morta vicino a me, forse per decisione mia. Quando si tratta di animali l’eutanasia è un atto di pietà: “Non ha senso vederla soffrire”. Invece per gli umani il suicidio assistito è quasi ovunque giudicato un crimine, perché il dolore degli umani ha connotati spirituali, mentre quello degli animali viene visto come uno strazio inutile. Inutile, per gli umani stessi che devono esserne testimoni senza che chi soffre possa comunicare niente se non l’essenza stessa del dolore, che è incomprensibile e muto. Hannah Arendt in Vita Activa scrive che il dolore è irrimediabilmente privato, cioè incondivisibile: privato, appunto, di una dimensione pubblica. Senza le parole che mediano, spiegano e sublimano, diventa anche ingiustificabile: non c’è teodicea nel regno animale.
Mi ero sorpresa più volte nella speranza stridente che la Cucci morisse da sola, all’improvviso e lontano dal mio sguardo.
La notte non riuscivo a dormire. Leggevo per ore i post di una pagina Facebook in cui si commemorano gatti morti: “Ciao Pallina, abbiamo passato dieci anni bellissimi insieme, buon ponte”. Avevo capito che agli animali si augura: buon ponte. Non lo avevo mai sentito dire per gli umani. Abbiamo, si vede, diverse infrastrutture. Buon ponte, Cucci.
Nel romanzo Lost Cat la scrittrice americana Mary Gaitskill racconta del delirio allucinato in cui la getta l’aver smarrito Gattino, un trovatello adottato durante un soggiorno in Toscana. Gaitskill si perde in una ricerca ossessiva che dura più di un anno: consulta sciamani, si improvvisa etologa, ricorre alla psicomagia. Niente da fare. Gattino è perduto per sempre, come la fantasia che le cose non finiscano, che le parole e i corpi si possano sempre, infine, ritrovare.
Ormai era chiaro che il mio corpo e quello della Cucci sarebbero finiti: la morsa della nostra mortalità ci univa in una compassione interspecista.
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“Non è che stai proiettando le tue fantasie, i tuoi mostri, magari addirittura un desiderio represso di maternità, sulla superficie indifferente del tuo gatto, cioè magari è tutto un tuo trip mentale” Aveva ipotizzato Samia. Un’interpretazione condivisibile, certo, credo che in molti la pensino come lei. Forse anche la mia mamma.
Però si tratta di un argomento eticamente problematico, che concepisce l’animale solo come strumento passivo, oggetto che si incaglia nelle trame complesse dei parlanti, rimpiazzando s/oggetti umani dotati, si suppone, di maggiore statura morale, insomma l’animale come feticcio in una dialettica padrone/schiavo che l’umano può fare e disfare a piacimento.
Donna Haraway nei saggi When Species Meet (2008) e Companion Species Manifesto (2003) articola una visione filosofica in cui ogni specie è co-costituita dal rapporto di co-evoluzione che intrattiene con le altre, a tutti i livelli. Haraway, che ha una formazione scientifica, cita studi avanzati di biologia e batteriologia, tra cui quelli di Margaret McFall-Ngai sui calamari Euprymna scolopes, molluschi che si sviluppano solo se il loro l’embrione viene colonizzato dai batteri luminescenti Vibro. D’altronde, anche i tessuti umani non si formerebbero in modo “normale” senza i microrganismi che ne abitano la flora batterica. La coreografia ontologica del bios ci insegna che la vita non si divide in entità separate: il genoma di ogni organismo porta le tracce delle interazioni con gli altri.
Già nel 1990 in Cyborg Manifesto, Haraway aveva messo in discussione l’idea del corpo come involucro che distingue un individuo dall’altro, e proposto di pensare all’epidermide non come barriera ma come superficie di connessione e comunicazione. L’avevo riletto da poco, il Manifesto Cyborg, in una di quelle notti senza sonno, con la borsa dell’acqua calda sulla pancia, e la Cucci tra le braccia, le nostre vesciche dolenti, le nostre pelli allergiche a contatto sotto le coperte. Mi ero sorpresa a pensare, non senza con un certo sollievo intellettuale: potrebbe in effetti essere che la comunicazione tra me e la Cucci avvenga a livello del soma, che ci mischiamo nel corpo, che ci trasmettiamo sintomi invece che stringhe di linguaggio?
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Mentre il caffè decaffeinato filtrava dalla V60, e la Cucci mangiava canguro mischiato a antistaminici per cani e integratori per le vie urinarie, ho preso coraggio e detto a Samia, con la postura della filosofa (d’altronde una laurea in filosofia, seppur “breve”, ce l’ho), che tra me e la Cucci esiste una forma di telesomia.
“In che senso?”
“È una parola che credo di essermi inventata, una variazione di ‘telepatia’. Telepatia deriva da ‘tele’, lontano, e ‘pathos’, sentimento, e serve per indicare la comunicazione extra sensoriale del pensiero. Mentre ‘telesomia’ è composta da ‘tele’ e da ‘soma’, e indica la trasmissione di stati del corpo. La telesomia è il modo in cui comunichiamo con i nostri companion animals”
“Allora vedi, le parole non sono finite, it’s not the end of the words”
Samia sorride, è bella, si china ad accarezzare la Cucci e le dice “you little rascal”.
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A che serve scrivere di gatti?
Non lo so.
In prima battuta l’ho fatto per farmi passare la cistite.
Ho provato anche con l’agopuntura e il d-mannosio, ma niente funziona meglio della parola scritta. La scrittura è un pharmakon che aiuta a sciogliere l’enigma indurito del sintomo fisico.
Lo diceva chiaro e tondo Hélène Cixous, in chiave femminista, nel saggio del 1975 Il Riso della Medusa: scrivere è un modo per ribellarsi al potere simbolico di chi si arroga il diritto di stabilire cosa è giusto e importante dire. Mettendo nel testo parole che sembrano impronunciabili (o inascoltabili), il corpo si libera: non ha più bisogno di convertire, perché adesso può dire. È il processo attraverso cui un eccesso – di discorso e di affetto – si trasforma in qualcosa d’altro, qualcosa con una sua bellezza; un modo quasi alchemico di salvare l’inutile, l’assurdo, il doloroso e il fantastico, e dargli finalmente spazio: metterli al centro della scena in risposta alle istanze (vere o presunte) che li vorrebbero taciuti.
Prendere sul serio la vita intima, la biologia e la storia che ci legano alle nostre specie compagne ci porta ad avere a che fare con l’alterità, a superare i binarismi corpo/mente-natura/cultura
Per me si è trattato di reagire alla voce superegoica che mi ha tormentata proiettando sulle quinte della mia immaginazione caroselli di donne e gatte migliori di noi: donne pragmatiche che gestiscono con senno i malanni dei loro animali, o gatte sane e belle che bevono molta acqua; insomma, coppie donna-gatta rispetto alle quali io e la Cucci facciamo la figura delle disadattate. A fronte di questa diagnosi crudele – che riflette i tratti di un senso comune per cui gli animali domestici sono importanti, sì, ma fino a un certo punto – io sostengo, con Haraway, che prendere sul serio la vita intima, la biologia e la storia che ci legano alle nostre specie compagne ci porta ad avere a che fare con l’alterità, a superare i binarismi corpo/mente-natura/cultura, e con essi i regimi di ineguaglianza, le gerarchie ontologiche e morali, e i paradigmi di verità assolutisti su cui si regge l’antropocentrismo moderno. Lo ha fatto, per esempio, Virginia Woolf con il romanzo Flush, una biografia rigorosa che traccia le gesta di un membro del “club degli Spaniel” con lo stile che si riserva ai grandi personaggi di un’epoca. E naturalmente lo ha fatto Doris Lessing nei suoi vari scritti sui gatti, tra cui i racconti Particularly Cats e Rufus the Survivor, e il memoir The Old Age of El Magnifico. (Pare che Lessing abbia persino dichiarato di aver sofferto di più per la morte di un suo gatto che per quella di sua madre, ma l’ho letto su Instagram quindi non so se sia vero).
Sono opere e autrici che, pur se molto diverse tra loro, mi sembrano unite dall’interesse etico ed estetico per ciò che si trova al di là del perimetro entro cui l’ideologia occidentale del consesso umano confina “l’utile” e il “sensato”. In questa luce la scrittura isterica e creaturale si rivela in quanto pratica che prende sul serio lo scarto, fa mappa dell’intralcio, e legge tra le righe dell’incongruo e del vaneggio. È un esercizio di ascolto telesomatico, che apprende la domanda sulla relazione tra corpo umano, corpo bestiale, e corpo del testo; tra soma, lingua e specie.
È un modo per sondare i buchi del linguaggio, e cercare così di cogliere qualcosa dell’esperienza degli animali, esperienza che loro si ostinano a non spiegarci con le parole.
Peccato che la Cucci non sappia leggere.