Ho scritto due libri e ne ho tradotti ottantasette, perciò non è strano che mi consideri una traduttrice molto più che una scrittrice. D’altronde al master di scrittura creativa dove mi diplomai tanti anni fa, il giudizio finale che ricevetti diceva sostanzialmente che non sarei arrivata da nessuna parte perché non avevo capacità narrative, o qualcosa del genere – non stetti molto ad ascoltare, visto che avevo già cominciato a lavorare e stavo traducendo Le correzioni. Ma per quanto sia piacevole togliersi i sassolini dalle scarpe, è pur vero che per me tradurre e scrivere sono due cose molto diverse, la prima facile e goduriosa, la seconda soddisfacente ma faticosa. Mentre scrivevo il mio primo libro raccontavo che mi sembrava di sollevare pesi col cervello, e adesso che ho scritto il secondo guardo con soddisfazione la creatura pubblicata e penso “è stato bello, però mai più” (e intanto penso già al prossimo).
Conoscere bene un’altra lingua e scrivere bene in italiano sono due qualità necessarie ma non sufficienti per tradurre bene: il talento di chi scrive è diverso dal talento di chi traduce, e c’è chi li possiede entrambi e chi ne possiede uno solo. Io, per esempio, posso definirmi scrittrice solo quando mi trovo a lavorare su una storia già pronta – qualcosa che ho vissuto o che mi è stato raccontato, e che poi posso, semmai, espandere con un lavoro di ricerca. In altre parole, mi manca la capacità di inventare storie. Certo, tutti gli scrittori inseriscono elementi autobiografici nelle loro opere (chi più e chi meno: Hemingway metteva la sua vita nei suoi romanzi molto più di quanto non faccia Stephen King, per esempio), ma in genere per chi scrive fiction il vissuto è un punto di partenza, non l’elemento centrale della narrazione.
Per scrivere un romanzo, insomma, occorre saper creare personaggi e storie, e poi saper organizzare la narrazione, e poi essere capaci di raccontare con una voce personale e unica, cioè con quello che si chiama stile. Chi traduce, invece, non lavora né sulla creazione né sull’organizzazione della storia: il suo compito è riscrivere il testo nella propria lingua cercando di mantenere intatti la voce e lo stile dell’autore.
Scrivere e tradurre sono due talenti diversi, dunque. Ma cos’è il talento? Qualcosa che si può imparare – l’eterno dilemma delle scuole di scrittura e di traduzione – oppure una specie di predestinazione calvinista, qualcosa che se non si possiede dalla nascita non si potrà mai acquisire? Il talento, per come lo vedo io, si può quanto meno spiegare, scomporre nei suoi elementi costitutivi, cioè in quelle che possiamo chiamare doti: alcune sono doti morali, e quelle sì che sono date e difficilmente si possono acquisire, mentre altre sono doti tecniche e si possono imparare, o quanto meno affinare. Allora si potrebbe dire che insegnare a scrivere o a tradurre significa insegnare certe doti tecniche a persone che sono già in partenza dotate di certe doti morali. Ho parlato di doti tecniche e morali non a caso: si tratta delle definizioni date da Calvino nel saggio Sul tradurre, che non mi stanco mai di citare perché riesce a riassumere in poche pagine – con la precisione e la limpidezza tipiche di Calvino – cosa significa tradurre un testo. Secondo Calvino i bravi traduttori sono quelli che posseggono sia doti tecniche “di agilità, sicurezza di scelta lessicale, d’economia sintattica, senso dei vari livelli linguistici, intelligenza insomma dello stile (nel doppio aspetto del comprendere le peculiarità stilistiche dell’autore da tradurre, e del saperne proporre equivalenti italiani in una prosa che si legga come fosse stata pensata e scritta direttamente in italiano)”, sia doti morali come “quell’accanimento necessario per concentrarsi a scavare mesi e mesi sempre dentro quel tunnel, con uno scrupolo che ogni momento è sul punto di allentarsi, con una facoltà di discernere che ogni momento è sul punto di deformarsi, di cedere ad andazzi, allucinazioni, stravolgimenti della memoria linguistica, con quel rovello di perfezione che deve diventare una sorta di metodica follia, e della follia ha le ineffabili dolcezze e la logorante disperazione”. Ecco, io non sarò brava a inventare storie, però queste doti morali le possiedo tutte, tanto che il primo titolo che avevo pensato per il mio libro sulla traduzione era proprio Una metodica follia. Ma c’è un’altra dote che considero fondamentale per saper tradurre, e che non rientra nell’elenco di Calvino: l’umiltà. La traduttrice, infatti, deve essere in grado di accantonare la propria voce, il proprio ego autoriale, per diventare in un certo senso la ventriloqua dell’autrice che sta traducendo.
E però, a furia di fare le ventriloque, qualcosa delle voci che traduciamo rimane necessariamente dentro di noi. Ora, rileggendo quello che ho scritto, mi accorgo che lo stile di questo articolo, con l’uso abbondante di trattini lunghi e il modo di ragionare un po’ errabondo, ricalca per certi versi quello dell’autore che sto traducendo. Mentre traduco Hemingway scrivo con frasi molto più brevi, uso molte meno virgole e molta più paratassi. Quando ho scritto un racconto su un puma californiano sentivo risuonare lontani echi di Cormac McCarthy. Se per imparare a scrivere è indispensabile leggere, e se tradurre, come diceva ancora Calvino, “è il vero modo di leggere un testo”, allora la lettura profonda di chi traduce può diventare un corso avanzato di scrittura. Quando ci mettiamo a scrivere dopo avere tanto tradotto, la nostra voce potrà finalmente emergere, per una volta libera dall’asservimento alle voci altrui, ma al contempo cresciuta e maturata all’ombra delle voci di tanti grandi maestri. Un altro, insomma, dei numerosi piaceri del tradurre.