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Lo scrittore che legge di Matteo B. Bianchi/3

    Dal 25 giugno al 16 luglio Matteo B. Bianchi, scrittore, direttore e fondatore della rivista ‘tina, che dal 1996 pubblica racconti di autori esordienti e non, è “Lo scrittore che legge” su TYPEE. Per quattro settimane leggerà e commenterà i racconti della community, esaminando lingua e stile, smontando meccanismi narrativi e sottolineando l’importanza dell’inaspettato.

    Il capitolo precedente de Lo scrittore che legge è qui.


    Capitolo 3




    > Mia figlia, di Graograman

    Scusa sai, non volevo disturbarti ma… sì, avevo bisogno di parlare. Ecco… hai già saputo. No no, non preoccuparti. So che non sei stato tu a far girare, mi fido… ma alla fine è un segreto di Pulcinella, solo che, la conosci com’è Sara. È già una bella botta anche senza … No no, Linda è a casa dall’altra. Eh, come vuoi che sia? Dura come una pietra. Innamorata, dice. Che poi lo sai come la penso. Uno se è innamorato davvero diventa tenero, non duro… Certo, hai ragione. La situazione. Però potrebbe anche capire. E anche tu sinceramente. È mia figlia, cazzo! Sì scusa, sono tanto nervoso. Un incubo, mi pare un incubo. No, Dario è una sfinge. Non parla e guarda il vuoto davanti a sé. Eh, lo psicologo. Fai presto. Non vuole saperne. Continua a dire che lei cambierà, che tornerà sui suoi passi… No, non credo proprio. Non sono decisioni che… sì sì, sembra convinta. Ma no, ma no, scherzi? Ti capisco, tuo figlio si sposa! Anzi mi chiedevo, mi vergogno un po’, è ancora sicuro che io… testimone, mi capisci? Ma certo che… Lo voglio fare certo. No, è che, ho pensato, magari non vuole dirmelo per cortesia però l’imbarazzo… Ok, ok! Ho capito. Lo so che lo hai educato bene, ma quando ci sono queste cose, i figli… sì, Luca dorme da noi. È meglio così. Almeno Sara se ne occupa e non pensa tutto il giorno. No, Linda manco si ricorda di averlo. Al momento è persa. Ha occhi solo per quella. Mio nipote… che ti devo dire. Urla, Giacomo. Urla di notte. Fa sogni… terribili. Sì. Beh, lui almeno lo abbiamo portato. Lo psicologo è stato categorico: mai da solo, però lasciate che si sfoghi. Sai cosa mi ha detto, poco fa? “Nonno, ma allora io sono uno sbaglio. La mamma non mi voleva, vero?” Così ha detto. Non è giusto Giacomo. Luca non se lo merita, lo sai, è un bambino così dolce… scusa non riesco, ho la lacrima facile.

    Certo, certo che puoi passare a prenderlo. Penso che uscire… cambiare. Anche perché qui l’aria… eh, Sara è una iena. Dice che è anche colpa mia… sì, sì, lo so che è il momento ma… una tragedia nella tragedia. Che sono stato troppo duro, dice, che non ho permesso che si esprimesse… tu mi capisci Giacomo, lo sai no, che sono stato felice. Cioè uno vuole il meglio per i figli e cerca di passare quello che gli ha fatto bene e poi… forse è vero, forse non l’ho lasciata parlare. Ma ti ricordi il mio matrimonio no? Il giorno più bello. E allora sogni che… anche lei sì. A me sembrava davvero che lo fosse. Anche Dario non si è accorto di nulla. Mai nulla, non una voce. E poi di punto in bianco… dice che per la nostra fede, che ci ha provato, che non poteva fingere più… Cosa? Dove ho sbagliato, dimmi? Che poi prima ancora avrei capito, ma adesso, adesso c’è Luca. No, non farmi anche tu la paternale. Sai bene che abbiamo fatto scelte diverse nelle nostre famiglie. No, per carità, non rinnego nulla. Sono stato… felice sì. Lo sono tuttora, anche se… Ma certo che me lo dico… vabbè, passerà, ma adesso io… No ecco, per la famiglia si rinuncia a tanto, non è una passeggiata. E ho cercato di farle capire che lo si fa per amore, che le cose che valgono… solo quelle, mi capisci? Mi capisci Giacomo? Che vuoi che ti dica, hai ragione. Certo.

    Senza mia moglie, tua moglie… Chissà. Ogni tanto ci penso sai? A quello che poteva… no no, non un rimpianto, ma una parte, un pezzo che ho lasciato. Come un vuoto. Come quelli che perdono la gamba e ancora la sentono. Quello che ha fatto Linda… non so. A te non vengono mai dubbi? Si, non stare a ripetermelo. Rinunciare ha permesso tutto questo. Sì, ci penso sai? Dio che rinuncia a se stesso per lasciare spazio a qualcun altro, a noi. E anche io e te abbiamo creato spazio per Linda, i nostri figli… Lo sento, lo sento dentro la carne. È stato un bene. Però io… ancora… Ah, scusa. Però avevo bisogno di sentirtelo dire. Anche per me, nulla. Come non fosse passato un giorno. Ho bisogno di vederti. Di piangere un po’. Di sentirti ancora mio. Di rinunciare a te ancora. Una volta ancora.


    > Il naso di Ralph, di albertomineo

    Ralph era di pattuglia nel Vietnam del sud, in un zona di villaggi da dove i mangiafrasche si erano ritirati ed erano spariti nella foresta. Era l’ultimo villaggio e si erano come al solito divisi per ispezionarlo.
    Procedevano secondo le nuove regole: prima bruciavano tutto, chiunque ci fosse nelle capanne, ma dopo il casino che avevano combinato i ragazzi di Calley a My Lai l’America non poteva permettersi altri scandali.
    Ralph era entrato nell’ultima capanna quasi soprappensiero e quando aveva visto la bambina seduta a terra aveva fatto un mezzo salto all’indietro. La bambina era piccola, avrà avuto due anni, e lo guardava con i suoi occhietti a fessura.
    Poi aveva preso qualcosa dietro di lei e l’aveva sollevato verso Ralph, dicendo “lấy nó”, che nella sua lingua significava “prendila”.
    Nel momento in cui Ralph aveva premuto il pulsante del lanciafiamme convinto che la bambina l’avrebbe fatto saltare in aria con la granata che teneva in mano si era accorto con orrore che quella che la bambina gli porgeva era una bambola fatta di stracci e rami secchi. L’odore del gasolio misto all’odore dolciastro della carne bruciata si era fissato per sempre nella memoria olfattiva di Ralph e lui, per una sorta di rimozione salvifica, l’avrebbe sempre chiamato “odore di caramella”.
    L’odore di caramella l’avrebbe accompagnato per tutta la vita, impedendogli di sentire qualsiasi altro odore. Non avrebbe mai spiegato a nessuno perché lo sentiva, e nessuno lo capì mai. Quando il cancro se l’era portato via a 50 anni, Ralph era stato quasi contento di andarsene, ormai stava impazzendo. L’infermiera presente in quel momento disse che morì ripetendo “lấy nó”.
    “ È la morfina che li fa parlare strano” disse, poi andò in terrazzo a fumare.


    > Così fragile (In the middle of nowhere), di Umberto

    Il bus piegò a est, arrivando in vista di una baia frastagliata, con la pioggia in arrivo dal mare e il vento che faceva risalire le foglie nei rari crinali. Le onde sbattevano nel fiordo. Spumeggiavano e si infrangevano di nuovo, alimentandosi in eterno. ‘Qualcosa resiste sempre’, pensò Ray.
    Si fermarono in un paese a nord di Inverness. Nella piazza Ray riempì una borraccia d’acqua, per levarsi il sapore asciutto che aveva in bocca. Il cielo intanto si era squarciato con lame accese di azzurro. Ray aveva dei crampi allo stomaco, non mangiava da un secolo. Entrò in un Tesco SuperStore. Il supermercato era più affollato di quanto si aspettasse, tutto il mondo abitato sembrava concentrato lì. Arrivato a una pila di scatolame gli si avvicinò un vecchio. Aveva uno sguardo sperduto.
    “Dove sono le ciambelle?”.
    Ray non aveva la minima idea di dove fossero. Il vecchio gli mostrò una lista.
    “Vedi, mia moglie ha scritto ciambelle. Sotto latte in polvere. Lei non mangia altro, ciambelle e latte in polvere. E dove sono le ciambelle? Cambiano posto ogni giorno”.
    Lo fissava respirando in modo affannato. A Ray sembrava di sentire il suo cuore in allerta, batteva accelerato sotto la maglia di lana. La maglia sapeva di naftalina, e di cassetti foderati con la carta di giornale. Dello stesso colore dei muri del supermercato, come un mimetismo dettato dalla prudenza e dall’insicurezza.
    “Glielo dico io dove sono le ciambelle”, intervenne una donna pesante, tozza e massiccia, chiazzata di sudore sotto le ascelle. Si portò via il vecchio, per mostrargli dov’erano le ciambelle. E mentre si allontanava Ray indovinò anche il suo, di cuore. Un battito lento, rimbombava in una caverna piena di anfratti. Vasta, incasinata, generosa. Si voltò sbattendo contro un uomo, e lo sguardo dello sconosciuto lo gelò, una lama tagliente, occhi freddi da rettile. Percorse tutta la fila e dall’altra parte degli scaffali incappò negli stessi occhi. Algide pupille che si introducevano nel suo corpo, mani in tasca alla ricerca di qualcosa di diverso dalle merci esposte negli scaffali, zampe abituate a buie intrusioni. Un cuore avvelenato, lo strusciare di un serpente intorno a un corpo giovane. ‘Pezzo di merda lasciami perdere altrimenti ti spacco’, recitava Ray tra sé e sé, ma aveva paura. La solita paura, quella che non lo abbandonava mai, che restava sempre acquattata da qualche parte. Si allontanò rovistando a caso tra i frigoriferi. Gli era rimasto un appetito senza stomaco, non sapeva cosa cercava. Nel vetro del frigo si rifletteva il viso scavato da bambino usurpato. Di quanta fiducia aveva bisogno? Ce n’era abbastanza, nel mondo? Girò i tacchi e passando vicino all’uomo lo urtò con la spalla, lo superò sputando per terra, l’altro gli lanciò un’occhiataccia e poi si allontanò. Ray si passò una mano sulla testa rasata, rimise il cappellino al suo posto. Camminando lungo le corsie sentiva il suo cuore piano piano calmarsi, estinguersi l’incendio divampato sulla faccia. Qualcuno gli batté un dito sulla spalla e lui strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. Ma era una donna. Una donna qualunque. Chiedeva se quel carrello a pochi passi da Ray fosse suo.
    “Non ce n’è neppure più uno all’ingresso, è l’unico supermercato nel raggio di centinaia di chilometri, sai, qui siamo nel mezzo del nulla eppure è pieno di gente”. La donna scrollava il capo, e gli occhi sembravano uscirle dalle orbite. “Non so come ma spariscono, c’è chi li arraffa anche se deve comprare due uova”.
    Parole pressanti, un cuore inseguito dal tempo, abituato ad andare di corsa.
    Ray si avvicinò alle uscite, dopo aver passato il carrello alla donna. Il cassiere lo squadrava con sospetto facendo scorrere sul rullo gli acquisti di un uomo con il respiratore e la bombola d’ossigeno. Il cuore di quest’ultimo arrancava, in attesa soltanto di ritornare nella tana calda, due camere tranquille e Channel5 alla televisione. Quello dell’anziano che gli aveva chiesto delle ciambelle gli rimbombava alle spalle, e sembrava ferito da qualche offesa, forse un acquirente si era rivolto a lui con sufficienza o disprezzo, questi vecchi così lenti che intasano le code. Ray scavalcò la cassa, uscì fuori spingendo i maniglioni pesanti e una sirena risuonò nell’aria di cristallo. Sollevò le mani, come arrendendosi. Poi frugò nelle tasche trovando dei cracker. Non si era neppure accorto di averli presi. Nell’aria turbinava ancora un po’ di pioggia, il vento la disperdeva in vortici gocciolanti. Le foglie dovevano ancora fare il loro su e giù nei crinali, le onde si infrangevano in eterno nei fiordi. Aveva tutto questo nella testa, Ray. Ora doveva pagare però. Si diresse verso il cassiere dalla faccia rotonda e sospettosa, la sirena smise di assordarlo e Ray ricominciò a sentire il suo cuore, il cuore di tutti.

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    Matteo B. Bianchi

    Matteo B. Bianchi ha pubblicato i romanzi Generations of love (1999), Fermati tanto così (2002), Esperimenti di felicità provvisoria (2006)(Dalai editore), Apocalisse a domicilio (Marsilio 2010) e Maria accanto (Fandango 2017). Con Giorgio Vasta ha curato il Nuovo dizionario affettivo della lingua italiano (Fandango 2019). Ha pubblicato inoltre la biografia Yoko Ono. Dichiarazioni d’amore per una donna circondata d’odio (Add 2018) e La vita di chi resta (Mondadori, 2023). In radio è stato autore del programma quotidiano Dispenser per Radio Due RAI. In tv è stato fra gli autori di Victor Victoria (La7), Quelli che il calcio (Rai Due), X factor (Strafactor) e E poi c’è Cattelan(Sky Uno). Dirige la rivista di narrativa ‘tina. È autore e conduttore del podcast letterario Copertina per StorieLibere.fm. Il suo sito è www.matteobb.com.