I passaggi qui riportati provengono dal romanzo Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, pubblicato in originale nel 1947 da Jonathan Cape, e sono tratti dalla mia traduzione uscita con Feltrinelli nel 2018 (dopo la storica traduzione di Giorgio Monicelli, risalente alla prima edizione italiana del 1961). Qui sono confrontati con alcuni consigli di scrittura reperibili un po’ ovunque.
Trova una trama avvincente
Nel corso di Sotto il vulcano non succede nulla. Tre persone si incontrano in una città del Messico di nome Quauhnahuac. Una è un Console senza più consolato, l’altra è la ex moglie tornata da lui e la terza è il fratello del Console, nonché ex amante della moglie. Parlano moltissimo. Bevono parecchio. Passeggiano per la città. Fanno una gita in campagna per vedere un rodeo. Due di loro muoiono (comunque la tragedia viene annunciata nel primo capitolo, appena aperto il libro). Fine. Eppure Lowry utilizza l’unità di luogo e azione per, come dire, comporre musica. Quello del libro è un continuo movimento a fisarmonica in cui a ogni passo dei protagonisti corrisponde un pensiero a ritroso e in avanti. È come una danza statica, che però in quel tremito (e mai parola sarà più esatta, visto l’alcolismo del Console) trova una vibrazione, una risonanza, che ci tiene avvinti. Una volta entrati nel vortice di Sotto il vulcano è difficile non restarne ammaliati: le digressioni, le citazioni, i deliri diventano – come i molluschi aggrappati alla barca, come le note della Divina Commedia di cui parlava Osip Mandel’stam – parte integrante, inestirpabile della storia. Non saprei come altro dirlo, ma la trama è il libro stesso.
Crea un conflitto
Riuscirà il Console a bere un’altra tequila? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi, in fondo in fondo, a metterci un paio di mescal?
Rendi coerenti i personaggi
Perché diavolo il Console, che spasima per riavere la moglie Yvonne, quando se la ritrova davanti all’alba di quel fatidico giorno, non la vuole più? Che senso ha impostare un intero romanzo su uno struggimento esistenziale di profondità abissali per poi buttare tutto al vento durante una semplice scampagnata con gli amici? Non ci si riesce a credere nemmeno per un secondo. Il libro dovrebbe cominciare con il Console che beve al bancone del bar e chiudersi con lui che beve al ricevimento di un secondo matrimonio. Perché mai dovrebbe considerare lui e Yvonne come il Popocatpetl e l’Ixtaccihuatl, i due vulcani che dormono e si contemplano, fermi e irraggiungibili, come le due metà di una roccia dilaniata, despedida? Eppure proprio in questo stallo, in questa contraddizione disarmante, il Console – fratello di Ahab, lettura prediletta di Lowry – trova un senso: non può vivere senza amare, amare è per qualche insondabile motivo impossibile, e allora anche vivere è insensato. Per 426 pagine ci ritroviamo a partecipare ai deliri di un alcolista ridicolo senza riuscire a capirlo ma senza mai riuscire a evitare di provare compassione, comprensione, perfino affetto per lui e per il fratello e per la ex moglie e per tutte le marionette della vicenda e per il dolore del grande Messico e infine per tutto il genere umano, perso a dibattersi nel desiderio, nell’adulterio, nel dolore, nell’amore in attesa di uno sconvolgimento. O di una barranca, il baratro dove verrà scaraventato il corpo del Console e che somiglia tanto a una forma di pace, di requie.
Stabilisci un obiettivo
Riuscirà il Console a bere un’altra tequila? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi, in fondo in fondo, a metterci un paio di mescal?
Non scrivere periodi troppo lunghi
Prendete fiato.
“Anche il suo corpo era quello di Yvonne, le sue gambe, i suoi seni, il suo cuore palpitante e appassionato, l’elettricità crepitava sotto le dita che stava passando su di lei, anche se l’illusione sentimentale stava svanendo, stava sprofondando in un mare, come se l’illusione non fosse mai stata lì, era diventata il mare, un orizzonte desolato con un enorme veliero nero, seminascosto dalle onde, che sfilava nel tramonto; oppure il corpo non era niente, nient’altro che un’astrazione, una calamità, un diabolico apparato per sensazioni catastrofiche e nauseabonde; era un disastro, era l’orrore di svegliarsi la mattina a Oaxaca, ancora vestito dalla testa ai piedi, ogni mattina alle tre e mezza dopo che Yvonne se n’era andata; Oaxaca, e la fuga notturna dall’Hotel Francia addormentato, dove lui e Yvonne un tempo erano stati felici, dalla camera modesta che dava sulla terrazza in alto, all’Infierno, quell’altro Farolito, l’orrore di annaspare nel buio alla ricerca di una bottiglia, e di non trovarla, l’avvoltoio appollaiato nel lavandino; i suoi passi, impercettibili, un silenzio di tomba davanti alla sua camera, troppo presto per le grida terrificanti della macellazione che salivano dalle cucine… l’orrore di scendere le scale foderate fino al grande antro buio della sala da pranzo deserta, l’ex patio, affondando nel soffice disastro del tappeto, i piedi che affondavano in un’angoscia struggente fino alla base delle scale, nemmeno del tutto sicuro di non trovarsi sul pianerottolo… e la fitta di panico e disgusto per se stesso se ripensava al bagno con le docce gelide sulla sinistra, usato solo una volta in precedenza, ma comunque sufficiente… e il muto finale approccio tremante, composto, i passi che affondavano nella calamità (ed era questa calamità che adesso, con María, penetrava, mentre l’unica cosa viva dentro di lui ormai era questo bruciante bollente cattivo organo crocefisso: Dio, è mai possibile soffrire più di così, da tutta questa sofferenza dovrà pur nascere qualcosa, e da tutto questo sarebbe nata la sua stessa morte) perché ah, quanto sono simili i gemiti dell’amore a quelli della morte, quanto simili, quelli dell’amore, a quelli dei moribondi… e i passi che affondavano, con il suo tremito, il suo nauseabondo gelido tremito, e nel buio antro della sala da pranzo, con una luce fioca dietro l’angolo che aleggiava sopra il banco della reception, e l’orologio… troppo presto… e le lettere che non aveva scritto, che non riusciva a scrivere, e il calendario che ribadiva in eterno, invano, l’anniversario del loro matrimonio, e il nipote del direttore che dormiva sul divano, perché doveva andare a prendere qualcuno in arrivo con il primo treno da Città del Messico; il buio che mormorava, palpabile, la fredda dolente solitudine nella sala dai soffitti alti e risonanti, inamidata quanto i morti grigiastri tovaglioli ripiegati, il peso della sofferenza e della coscienza ancora più grande (sembrava) di quello sopportato da un qualsiasi sopravvissuto… la sete che non era sete, ma semplice amore disperato, e lussuria, era morte, morte, e ancora morte e morte l’attesa nella fredda sala da pranzo dell’albergo, borbottando tra sé e sé, mentre aspettava, visto che El Infierno, l’altro Farolito, non apriva prima delle quattro della mattina e non potevi aspettare fuori…”
In realtà il periodo continua per un altro centinaio di righe ed è uno dei momenti più mesmerizzanti del romanzo. Ci dimentichiamo che il linguaggio è un’ipnosi, che i suoni aprono mondi, che ci affacciamo alla conoscenza con l’ecolalia, che guardiamo le parole con l’orecchio. Oppure, come diceva Paul Claudel, “l’occhio ascolta”. È stato commovente scoprire non molto tempo fa che uno scrittore come Truman Capote, dotato di uno stile estremamente controllato e di norma sprezzante nei giudizi fino alla violenza più gratuita, nutrisse una grande ammirazione per Malcolm Lowry. La grazia è grazia ovunque.
Il viaggio dell’eroe
Riuscirà il Console a bere un’altra tequila? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi, in fondo in fondo, a metterci un paio di mescal?
Show, don’t tell
Bisogna mostrare il personaggio all’azione. Lasciarne trapelare i pensieri, i moti interiori, gli obiettivi, dai gesti che compie. Malcolm Lowry sceglie invece di entrare e uscire di continuo dalla mente del suo personaggio principale. Per quanto, a lettura ultimata, ci possa sembrare che il romanzo appena letto sia stato scritto in prima persona, in realtà Sotto il vulcano è scritto in terza dall’inizio alla fine. Eppure l’intimità, la vicinanza, lo strofinio perfino indesiderato con i più reconditi moti dell’animo del Console ci accompagna a ogni pagina. È un uso selvatico del discorso indiretto libero e del monologo interiore, che raggiunge vette joyciane. Prendiamo la scena che apre il quinto capitolo. È una passeggiata in giardino, con una chiacchierata insieme al vicino di casa, Quincey. Tutto qui. Eppure l’intero capitolo è un ondeggiamento dentro una psiche stravolta dal “subdolo bouquet di pece e molluschi” della tequila. Ci muoviamo insieme alla mente del Console per vedere un serpente e un cane forse inesistenti, per ragionare su William Blackstone (uno studioso che abbandonò la civiltà per andare a vivere in mezzo ai selvaggi, ma non ci riuscì), per trovare significati ulteriori in una semplice scritta in castigliano, per ascoltare le vocine diaboliche e angeliche nella testa del Console, per seguire una fantasia sulle nuvole, per seguire una fantasia sulle Cicladi, per smarrirci in un ricordo di Liverpool e del Liver Building (dal nome, alas, tanto evocativo), per seguire una fantasia sulle tigri, per gingillarci con un gioco di parole che rievoca Macbeth, per riflettere sul termine alas, per meditare sul devastante senso di colpa dato dall’hangover (pesante come un crimine), per seguire la pantomima di un gatto che si lascia sfuggire un insetto, per avere una visione del mondo accelerata da film muto, per ammutolire davanti all’idea del sistema nervoso visto alla stregua di una città bombardata, per seguire le parole dei personaggi “come silenziose esplosioni nel cervello”, esplosioni che avvengono anche dentro il nostro di cervello. E così, dopo questo tour de force, sentiamo cosa sente il Console.
Feel, don’t show, don’t tell.
Costruire l’ambiente senza dettagli inutili
Che cosa mai potrà voler dire la parola “inutile” in una mente scardinata come quella di Lowry? Chi oserebbe togliere una parola alla descrizione che segue? A volte il testo non deve essere proprio un’esperienza dello studio, della lettura e alla fine – in modo ancora più dirompente – dei sensi?
“La strada attraversava i campi semiarati e costeggiati da viottoli erbosi, percorsi dai coltivatori di cactus che rincasavano dal lavoro. Era ancora una delle sue passeggiate preferite, sebbene non la percorresse da prima delle piogge. Le foglie dei cactus portavano una frescura gradevole; gli alberi verdeggianti, trafitti dagli ultimi raggi del sole, sembravano salici piangenti agitati dal vento impetuoso che si era levato da poco; un lago di luce gialla s’intravedeva in lontananza ai piedi delle dolci colline a forma di pagnotte. Eppure quella serata aveva preso una piega minacciosa. A sud montavano dei nuvoloni nerastri. Il sole rovesciava vetro fuso sui campi. In quel tramonto sconvolto i vulcani avevano preso un che di terrificante. Laruelle accelerò il passo, con le comode e robuste scarpe da tennis che avrebbe dovuto già avere infilato in valigia, facendo roteare la racchetta. L’aveva nuovamente attanagliato una sensazione di terrore, la sensazione, dopo tutti quegli anni, di essere ancora, e perfino nel suo ultimo giorno di permanenza, sempre e solo un forestiero. Quattro anni, quasi cinque, e ancora si sentiva un viandante scaraventato lì da un’altra galassia. Non che questo rendesse meno difficile andarsene, anche se di lì a poco, a Dio piacendo, avrebbe rivisto Parigi. […] Con quanta costanza, con quanta imprevedibilità, il paesaggio mutava! Ecco che i campi erano diventati sassosi; ecco lì un filare di alberi morti. Un aratro abbandonato, profilato contro l’orizzonte, alzava le braccia al cielo in una muta implorazione; un altro pianeta, pensò di nuovo Laruelle, un pianeta ignoto dove, se guardavi poco più in là, oltre le Tres Marías, trovavi ogni tipo di paesaggio allo stesso tempo, le Cotswolds, il Windermere, il New Hampshire, i prati dell’Eure-et-Loire, perfino le dune grigie del Cheshire, addirittura il Sahara, un pianeta nel quale, in un batter d’occhio, potevi cambiare clima e, se ti andava di crederlo, anche solo svoltando l’angolo, tre civiltà diverse. Eppure era bello, non si poteva negare che fosse bello, per quanto fosse fatale o purificante, bello come doveva essere il Paradiso Terrestre.”
I tre atti
Riuscirà il Console a bere un’altra tequila? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi un’altra? E poi, in fondo in fondo, a metterci un paio di mescal?
Non eccedere con le metafore
Non lo so quante volte Lowry insiste sulla roccia divisa, spaccata, impossibile da ricongiungere. Cinque, dieci, venti volte? E i due vulcani che si guardano, immobili. Non c’è metafora di separazione, di distacco, che Lowry non sviscera fino alla nausea, fino a fare un giro impossibile e a riemergere dall’altro lato come un comico così inetto da farci prima ridere e poi piangere per davvero e poi ridere del nostro pianto. È la goccia cinese, è la tortura della ripetizione fino allo smarrimento del senso. In fondo è un’immagine che rispecchia l’ostinazione di Malcolm Lowry nello scrivere quel libro – e, in seguito, sempre lo stesso libro. Ribattere, ribadire, in modo quasi stolido, le parole fino a farle scintillare, incandescenti. La lotta con Sotto il vulcano, dalla prima stesura fino alle bozze, è stata epica, e si è risolta per miracolo solo nell’isolamento di una baracca nella Columbia britannica, grazie all’assistenza della seconda moglie, disposta ad ascoltarlo, a trascrivere, a rileggere insieme a lui ad alta voce. Da lì in avanti, di nuovo come una goccia, Lowry avrebbe sempre insistito sullo stesso tema, sulle stesse variazioni: strazio, alcol, Messico, sbigottimento, prosa barocca. E non sarebbe più stato in grado a ricongiungersi con l’altro capolavoro. La seconda metà del viaggio non arrivò mai, solo dopo la morte con la miriade di pubblicazioni postume. Il vulcano restò solo.
“Oltre la barranca, la pianura saliva fino ai piedi dei vulcani in un muro di foschia da cui affiorava il cono perfetto del vecchio Popo, mentre sulla sinistra, come una cittadina universitaria immersa nella neve, si allargavano i picchi frastagliati dell’Ixtaccihuatl. Per un attimo rimasero in veranda senza dire una parola, senza tenersi per mano, ma con le mani che si sfioravano, come se non fossero sicuri di non stare sognando tutto, ognuno per i fatti propri su letti distanti, affranti, le mani nient’altro che frammenti sparsi di ricordi comuni, quasi intimorite di intrecciarsi, ma che di notte tornavano a sfiorarsi sopra il mare in tempesta.”
Non fare sentire inferiore il lettore
C’è un vecchio articolo in cui si racconta del passaggio di Alberto Arbasino in un liceo. All’epoca me lo lessi perché ero avido di Arbasino, di cui leggevo molto e di cui capivo poco. Pare che uno studente gli rivolse la stessa obiezione: “Apro i suoi libri e non capisco niente”. Lui rispose: “Io non ti darò mai il risotto”. E di questo gli fui grato. E così Lowry non ti darà mai la comida semplice che cerchi perché hai lo stomaco debole. Lowry ti darà sé stesso. Bisogna, come si dice, saper reggere. Ogni tanto risalta fuori la teoria dell’iceberg, di cui parlava Ernest Hemingway: lasciare buona parte del racconto non detto, sotto il filo dell’acqua, per mostrare solo una piccola parte e lasciare che il lettore immagini il resto. Ecco, Malcolm Lowry ti mostra invece tutto l’iceberg, anzi è l’iceberg.