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Il processo

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    Questo racconto è un estratto da L’uomo che non voleva piangere di Stig Dagerman (Iperborea 2025), traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari: ringraziamo l’editore per la concessione.
    A Stig Dagerman è dedicato il workshop di scrittura con Giorgio Fontana in programma sabato 29 marzo nella sede di Belleville a Milano: per info e iscrizioni https://bit.ly/40JrUEZ.

    Buona lettura!

    ***

    «È meglio che le sia chiaro fin dall’inizio», disse il giudice tirando fuori dalla tasca del panciotto una piccola ghigliottina giocattolo, «è meglio che le sia chiaro fin dall’inizio che noi abbiamo la verità dalla nostra parte. Quindi tanto vale confessare subito, senza complicarsi la vita con legittime obiezioni, e spiegarmi per bene perché ha rubato un rompighiaccio dello stato.»
    Sistemò la ghigliottina sul tavolo, tra sé e Petrus J., e poi pose un fiammifero sotto la lama che lasciò quindi cadere, ma evidentemente il risultato non fu quello atteso, perché premette un pulsante sulla scrivania e un ascensore salì cantando attraverso i piani.
    «Cosa c’è?» gridò l’usciere spalancando la porta con tanta forza da far tremare la stanza.
    «Deve farmi la cortesia», disse il giudice con sussiego, «deve proprio farmi la cortesia di tenere le ghigliottine in una condizione migliore. Guardi, questa lama ormai non è più in grado di tagliare nemmeno un fiammifero turco dei più sottili. È uno scandalo, caro signore, uno scandalo.»
    L’usciere si fece subito avanti e, senza far caso alla presenza di Petrus J., si mise ad affilare la lama con una lima. Era difficile farsi sentire con quel rumore, e Petrus J. si protese verso il giudice e gli gridò nell’orecchio:
    «Signor giudice, devo protestare. Pro primo: non si tratta di un furto, ma solo di un prestito temporaneo allo scopo di attraversare una distesa d’acqua piuttosto ampia; e pro secundo: non stiamo parlando di un rompighiaccio dello
    stato, ma di una semplice barca a remi, forse della più semplice delle barche a remi, e del resto come potrei io, uomo gracile e insignificante, manovrare da solo un intero rompighiaccio dello stato?»
    «Il testimone», mormorò il giudice tra lo stridere della lima, «non dimentichi il testimone, caro signore.»
    Di colpo l’usciere smise di limare, il giudice gli prese la mano e mise sotto la ghigliottina il mignolo, che si staccò con eleganza e cadde in una scatoletta sulla scrivania. Il giudice afferrò svelto la scatoletta e con un gesto rapido e tuttavia
    maestoso, la cui solennità era ulteriormente enfatizzata dalle pieghe della toga, la gettò nel cestino della carta.
    «Bene», disse, «lei è in malattia per il resto della giornata.»
    Petrus J., che aveva osservato la cerimonia con interessato terrore, sembrava ancora ignaro di trovarsi in una situazione disperata. Cercò addirittura di sorridere mentre il giudice ripuliva con cura la ghigliottina con la carta assorbente.
    «Il testimone può aver visto male», disse infine.
    «Sono convinto che sia uno strabico che nella fretta non è riuscito a distinguere una barca da un rompighiaccio.»
    «È escluso», rispose il giudice senza interrompere la sua occupazione. «Per evitare qualsiasi confusione, ormai facciamo uso solo di testimoni ciechi. Già molto tempo fa si è capito che era troppo complicato con i testimoni vedenti: gli accusati riuscivano spesso a cavarsela affermando che i testimoni potevano aver visto male, potevano essersi sbagliati e così via, scuse che con il sistema attuale nessuno può accampare. Non è un’esagerazione dire che la verità si è notevolmente accresciuta dopo l’introduzione dei testimoni ciechi, in quanto nessuno nega più, ma tutti cadono in ginocchio davanti alla
    legge e confessano ogni cosa.»
    «Onnisciente giustizia, onnipotente giustizia, io confesso tutto! Mi ero intrattenuto tutta la notte con dei filosofi, poi all’alba, da solo, sono andato all’ormeggio dei traghetti, vicino all’Almänna gränd, e mi sono messo a guardare il mare.
    «Strano, proprio in quell’istante mi si è rivelata la frase del filosofo «tutto scorre», ed ecco: tutto scorreva, le barche piccole e le barche grandi, le isole con le case e gli alberi, gli uccelli bianchi e le boe rosse. Perché non scorri anche tu, Petrus J.? mi sono chiesto, e ho sentito che dovevo scorrere. Prenderò in prestito una barca a remi, ho pensato, e stavo per prendermene una quando mi è venuta in mente una cosa. In una barca a remi potrebbe capitare di tutto. Un’imbarcazione così fragile può essere rovesciata da una tempesta improvvisa; da un momento all’altro può arrivare l’inverno ed ecco che ti ritrovi bloccato dal ghiaccio e devi restare tra le foche ad aspettare la primavera, mentre moglie e figli muoiono di fame. No, è più sicuro e anche più morale prendere il rompighiaccio, mi sono detto, così ho bevuto qualcosa da un barile che si trovava lì sul molo e con una gaffa ho spinto il rompighiaccio di stato. In un primo momento pensavo di remare, ma non c’erano remi abbastanza lunghi. Allora sono sceso in sala macchine e ho acceso a tutta forza, poi sono corso alla plancia di comando e mi sono diretto a gran velocità verso la baia di Tegelviken, su cui proprio in quel momento si alzava il sole, e per tutto il tempo quella meravigliosa sensazione di fluttuare, la sensazione di un sistema filosofico che funziona alla perfezione. Il molo si avvicinava velocemente, così sono saltato a terra per ormeggiare il rompighiaccio di stato… giusto in tempo per vedere saltar fuori il reggimento blindato. “Non si muova di lì!” ha gridato qualcuno pavoneggiandosi dei cannoni, “se non vuole prendersi uno sparo di contraerea nella gamba.” E il resto, il resto lo conosce,
    signor giudice. Adesso mi giudichi, mi punisca, mi dia quel che merito.»
    «Per un rompighiaccio dello stato», disse il giudice con gravità, e intanto vuotava la scatola dei fiammiferi turchi davanti alla ghigliottina,«per un rompighiaccio dello stato c’è una sola punizione, ma prima una domanda: cosa crede che succederebbe se a tutti gli abitanti di questa città saltasse in mente all’improvviso di prendersi le cose altrui con la leggerezza con cui l’ha fatto lei?»
    «Signor giudice», disse Petrus J. con quel po’ di dignità che gli restava, «l’unica circostanza attenuante del genere umano consiste proprio nel fatto che gli impulsi criminali non si presentano simultaneamente in tutti, ma con intervalli così lunghi o così irregolari che chi lo desidera può cullarsi nell’errore che l’amoralità sia prerogativa di una minoranza privilegiata.»
    A quel punto il giudice batté il pugno sulla scrivania con tanta forza da far cadere la ghigliottina.
    «Saprò strapparla alla sua pervicacia», gridò.
    «Fate entrare il cane cercatore di verità!»
    La porta si dischiuse ed entrò un bassottino marrone, con le orecchie pendenti e l’aria triste; tutt’a un tratto Petrus J. si rese conto di essere tenacemente aggrappato al guinzaglio del cane, che lo stava trascinando per tutta la stazione di polizia. Discesero innumerevoli scale, e faceva sempre più caldo. Petrus J. sudava e, sui gradini, si strappò di dosso un indumento dopo l’altro, così era nudo come un verme quando insieme al cane oltrepassò una porta girevole ed entrò in uno stanzone enorme che aveva sul pavimento un gigantesco mosaico raffigurante un fascio. Un poliziotto, con indosso solo un costume da bagno, giocava a campana con il suo distintivo, saltellando sulle tessere del mosaico. Faceva un caldo spaventoso e in fondo alla sala, a una grande scrivania, stava un altro poliziotto, anche lui in costume da bagno, aveva un distintivo dorato
    appuntato sul petto nudo con una spilla da balia e premeva in continuazione pulsanti rossi, verdi o viola.
    «Cosa significano quei colori?» domandò Petrus J. al cane, ansimando.
    «Ah, non significano niente», sbuffò il cane,«a quel posto vengono destinati solo addetti daltonici.»
    Altri uomini in costume da bagno si allenavano in diversi sport, tendevano tra loro lunghe strisce di gomma da masticare oppure si esercitavano in acrobazie ginniche. Poi Petrus J. notò sulle pareti una quantità infinita di sportelli da forno da cui sembrava uscire il calore. Si avvicinò tirandosi dietro il cane e ne aprì uno, velocemente e senza pensarci. Arretrò spaventato e avrebbe voluto fuggire, ma ormai era troppo tardi: gli uomini in costume da bagno lo circondarono minacciosi e fu costretto a guardare l’inferno. Un poveraccio era legato a un palo e una fiamma rossa, di inaudito calore, a intervalli
    regolari gli si torceva attorno come una liana.
    «L’inferno per una goccia d’acqua», mormorò l’uomo, «il paradiso per due.»
    «Che cos’ha fatto?» gridò Petrus J. attraverso lo sportello. «Quale orribile crimine è la causa di questo castigo?»
    «Per me non c’è salvezza», ansimò il condannato. «Una volta ho utilizzato la toilette di un treno durante una sosta in stazione.»
    Petrus J. e il cane cercatore di verità ripresero il loro cammino, guardarono dentro molti sportelli e videro molti condannati, intorno ai quali si torcevano fiamme rosse, verdi o viola.
    «Per me non c’è salvezza», si lamentava uno, «una volta ho attribuito a un omousiano la proposizione di un omoiusiano.»
    «Per me non c’è salvezza», gemeva un altro, «durante una cena al vescovado ho chiamato barone un conte.»
    «Per me non c’è salvezza», sussurrava un terzo, «una volta, in una compagnia di persone colte, ho confuso Mozart con Chopin.»
    «Per me non c’è salvezza», urlava un quarto, «una notte ho preso in prestito una barca che non usava nessuno.»
    A questo sportello Petrus J. si fermò a osservare affascinato la fiamma verde, mentre il cane, ai suoi piedi, mugolava:
    «Per ogni visitatore che arriva qui, c’è uno sportello davanti al quale resta bloccato, paralizzato dalla gioia di scoprire che in fondo non è così solo come credeva. Bisogna quasi portarlo via di lì con la forza. Spesso capita che voglia infilarsi dentro lo sportello anche se è ancora vivo.»
    Con dolce violenza, il cane lo trascinò via e lo condusse allo sportello successivo. Era vuoto, ma con un balzo improvviso vi entrò il cane cercatore di verità.
    «Dovevo cercare la verità», disse ansando agitato, «dovevo cercare la verità… ma poi…»
    «Ma poi…»
    «Ma poi mi è capitato di utilizzare un lampione a destra invece che a sinistra in un parco.»
    Per non assistere anche a questa sofferenza, Petrus J. richiuse lo sportello e corse di nuovo su, verso la frescura. Con i vestiti appoggiati sul braccio, entrò nella stanza del giudice.
    «Allora, giovanotto», gridò tutto allegro il giudice dandogli una cordiale pacca tra le scapole, «eccola qui. Che ne direbbe di una piccola esecuzione?»
    «Esecuzione?» disse Petrus J. «Io credevo…»
    «Noi non giustiziamo le persone», rispose il giudice, «per ragioni umanitarie non giustiziamo le persone, solo i fiammiferi. Guardi lei stesso.»
    Petrus J. guardò il proprio corpo e vide le gambe fondersi rapidamente l’una nell’altra, assottigliarsi e mutarsi in legno bianco, e mentre lo zolfo cominciava ad accumularglisi sulla testa e a spingersi su per la gola, riuscì ancora a urlare:
    «Signor giudice, faccia di me quel che vuole! Mi ghigliottini, mi sottoponga ai tormenti rossi, verdi e viola del purgatorio, mi trasformi in un cane… ma una cosa mi risparmi: non mi trasformi in un giudice! In un giudice no, quello proprio no.»

    Stig Dagerman

    Anarchico lucido e appassionato incapace di accontentarsi di verità ricevute, militante sempre in difesa degli umiliati, degli offesi e dell’inviolabilità dell’individuo, Stig Dagerman (1923-1954) appartiene alla famiglia dei Kafka e dei Camus e resta nella letteratura svedese una figura culto che non si smette mai di rileggere e riscoprire. Tra le sue opere, pubblicate tutte da Iperborea, citiamo: Il viaggiatore, Il nostro bisogno di consolazione, Bambino bruciato, I giochi della notte, Perché i bambini devono ubbidire?, La politica dell’impossibile, Autunno tedesco e Il serpente e la raccolta di poesie Breve è la vita di tutto quel che arde.