Me ne sono accorta qualche anno fa, quando alla presentazione di un mio libro un signore ha alzato la mano. “Possiamo picchiarlo?”. Sono caduta dalle nuvole – chi voleva picchiare, quel signore di Torino, così gentile da alzare la mano per intervenire, come a scuola? È saltato fuori che aveva letto il libro con il suo club di lettura e, all’incontro in cui ne avevano discusso insieme, si era parlato soprattutto della vigliaccheria di quel fidanzato che non solo mi aveva lasciata, ma addirittura tradita con la mia amica, senza peritarsi di nascondere gli indizi. E ora che ero lì davanti a lui in carne e ossa, quel signore tanto gentile pretendeva di sapere il nome e il cognome del fedifrago, per potergli dare una bella lezione.
Provai a spiegare che la storia l’avevo inventata mescolando frammenti di vita vissuta a una trama di fantasia; vidi che nessuno mi credeva. Il signore, sempre cortese, era solo deluso di dover deporre le sue bellicose profferte. Gli altri, mi parve, avevano perso interesse, come se li avessi ingannati.
Avvisaglie ne avevo già avute dai tempi del mio primo romanzo, anche se avevo fatto di tutto per ignorarle. Mi ero dovuta inventare, allora, una maniera per allentare l’inflessibile vigilanza censoria che mi costringeva a cancellare qualsiasi paragrafo scrivessi, come un’esasperata Penelope preda del disprezzo di sé. L’impulso all’invenzione, che mi ero applicata a soffocare con severo perfezionismo fin dall’adolescenza, era tornato a manifestarsi con l’esasperante insistenza di un sintomo nevrotico; così che per concedermi di scrivere, o quantomeno di provarci, pensai bene di inventarmi una voce lontana da me, che potesse farmi da maschera e da cassa di risonanza, stornare lo sguardo che mi giudicava con disprezzo: il mio sguardo di dottoranda diligente. Protetta da quel travestimento, pensavo, avrei potuto tentare di dar forma a un’esperienza del vivere che non sarebbe stata la mia, anche se si sarebbe nutrita dei miei pensieri, desideri, proiezioni e parole. Soprattutto, le parole: mi interessava intesserle in un discorso che potesse azzardarsi a dire qualcosa di vero dentro una cornice di finzione, sfuggendo alle maglie dell’esattezza accademica dentro cui iniziavo a sentirmi languire. Così mi costruii una sorta di alter ego fastidioso, una narratrice urticante. Le affidai un’esperienza inventata, impastando briciole delle mie esperienze con paure, riflessioni, osservazioni, caratteristiche che arrivavano da un altrove indefinito: da persone che avevo conosciuto, da personaggi immaginati, conosciuti in altri libri. Che per me erano reali, ma al modo in cui sono reali i personaggi: non mi era mai importato di conoscere gli ingredienti della ricetta secondo la quale erano stati composti.
Quando cominciai a incontrare le mie prime lettrici e lettori, capitava che mi facessero notare di avermi “immaginata molto diversa, leggendo”; e saltava poi fuori che istintivamente mi avevano attribuito il carattere di una persona che nella realtà non esisteva, che era solo la voce, il personaggio. Ogni volta finivamo per ridere del caratteraccio di quella voce irritante, e con facilità mi smarcavo dalla sua ombra; mi stupivo però anche, in qualche misura, di quanto fosse ovvia, quella sovrapposizione. Ne attribuivo la responsabilità a fattori esteriori. Più tardi, leggendo un’osservazione di Hilary Mantel sulla prossimità percepita fra la cosiddetta “scrittura femminile” e un esercizio diaristico abbracciato non per scelta poetica ma in un certo senso per destino – corollario della teoria, ancora tacitamente condivisa, per cui l’universale sarebbe maschile – mi è capitato di pensare che fosse la mia prosa inclinata verso l’introspezione della protagonista a instillare il sospetto che si trattasse di autobiografia. Ma io stessa avevo giocato sull’ambivalenza di un passato condiviso con la narratrice, che avevo immaginato frequentare la mia stessa scuola. Le avevo persino dato il nome che da ragazzina, quando mi presentavo bisbigliando il mio alla velocità imposta dalla timidezza, capitava che gli interlocutori mi attribuissero per fraintendimento: Gaia, anziché Ilaria. Qualche volta, sempre per timidezza, evitavo di rettificare.
Di fronte a un alter ego insopportabile, dire “non sono io” era stato facile, invece; un modo per sentirmi scagionata, perdonata, migliore. Persino troppo facile; forse per questo nel tempo ho creato avatar meno detestabili, per confondere le acque e mettermi in difficoltà, per costringermi a una posizione più scomoda, come davanti a quel gentilissimo signore che ho deluso stornando dalla mia persona la simpatia che aveva provato per un personaggio.
Ogni volta che mi trovo a incontrare lettrici e lettori di qualsiasi età e salta fuori la questione della prima persona come maschera, le mie parole di spiegazione trasformano la finzione in inganno; ogni volta sento la tentazione di lasciare che quell’io aderisca a me. Ogni volta mi ipnotizza l’ipotesi di lasciar perdere, ma non posso.
Ogni volta mi sembra un esercizio più difficile, e per questo più necessario, puntare il dito sulla crepa, la distanza, l’intercapedine, dissipare la confusione.
Ogni volta mi sento una guastafeste. Eppure mi pare di dover segnalare il confine proprio perché la festa possa continuare: la festa dell’invenzione, intendo, della finzione, della fantasticheria che ha diritto di cittadinanza sulla pagina e non dovrebbe risentire come minaccia la commisurazione con la realtà. Se voglio che il mio percorso prosegua nella direzione che prediligo, devo preservargli, per quanto possibile, lo spazio attorno. Permettere alle parole di allargarsi sul piano della finzione, che non è vera e non è falsa, solo abita un piano in cui non ha senso stabilire le percentuali di corrispondenza o coerenza con fatti che forse per pigrizia classifichiamo come reali.
Quel minuscolo atto di disillusione, insomma, mi serve per poter continuare a scrivere. Anche se per il resto non serve a niente, e con ogni probabilità mi aliena, ogni volta che lo compio, nuovi lettori, è necessario all’unica forma di onestà che mi interessa mantenere rispetto alla scrittura, una forma di onestà che non ha niente a che spartire con l’ideale di chi si sente ingannato se scopre che “io” è una maschera.
Il fatto è che sento di dover sfidare proprio questa pretesa di trasparenza.
Non è detto che si dica la verità, quando si è sinceri; ma nemmeno che si sia sinceri quando si dice la verità. Fra sincerità e verità si annoda un inghippo oscuro che ha a che fare con le intenzioni del discorso, con le interpretazioni di quello che accade, con le versioni di trama che la memoria costruisce, con il valore delle parole. Per scrivere qualcosa di vero capita che si debba passare per l’invenzione: talvolta rimanere ancorati alla pragmatica interezza di un vero senza spiragli, senza appigli, rende vuoto l’atto creativo. Ovviamente tutto dipende dal senso che diamo alla scrittura, un senso idiosincratico su cui è importante, se si scrive, interrogarsi.
Per me, ha il senso di provare, anche su una scala minuscola, a trasformare quello che dell’esperienza andrebbe perduto, rimarrebbe senza nome e senza peso, si dissiperebbe nei capricci del tempo, in qualcosa che possa baluginare anche solo un istante negli occhi di qualcuno che quell’esperienza non l’ha vissuta e nemmeno immaginata, eppure la può sentire, in combinazioni di lettere che proprio attraverso i suoi occhi la sua mente dovrà comporre. E questo piccolo miracolo ho la sensazione che succeda davvero sul terreno di quella che chiamo finzione, indipendentemente dalle proporzioni in cui siano state distillate realtà e fantasticheria nella creazione di questa terra, di nessuno e perciò potenzialmente di chiunque, che chiamo così solo perché rimanga affrancata dalle distinzioni rigide fra vero e falso. Per me, dunque, non è importante l’aderenza all’esperienza diretta: quando scrivo, quando leggo, non mi interessa tanto costruire un’istruttoria dei fatti raccontati, ma trovare aperture, radure in cui mi sembra di cogliere qualcosa che altrimenti rimarrebbe non visto. Fare quindi, dell’esperienza, un terreno di gioco, di assaggi, di prove, di dilatazione dell’io fino a smarrirne i confini, come per primo, almeno credo, ha saputo fare Montaigne: questo per me conta, e per provare anche solo a credere di poterlo realizzare attraverso la scrittura, ho bisogno di una distanza che si faccia spiraglio, di reinventarmi una sincerità sghemba.
Ho bisogno, insomma, di una maschera che mi conceda l’ardire necessario a osare il salto. Fare della prima persona uno strumento e insieme sacrificarla nell’offrirla a chi legge, come dissipandosi, come un artigiano che metta l’intera sua saggezza tecnica a disposizione di vite sconosciute. C’è una pagina magnifica, che tengo sul desktop del computer per poterla aprire ogni volta che ne ho bisogno, che lo spiega come non sarei mai in grado di fare; è una pagina di Proust, che di quest’uso spregiudicato e magnificamente generoso della prima persona rimane il modello ineguagliabile – e che amava, difatti, Montaigne, e me l’ha fatto capire, e scoprire, come non sarebbe successo se non avessi potuto indossare i suoi occhiali. In quella pagina, il narratore paragona sé stesso per l’appunto a un ottico, e “a quelle lenti d’ingrandimento che l’ottico di Combray porgeva al cliente”, il libro grazie al quale ai lettori intende fornire “il mezzo di leggere in loro stessi.”
Come mai, però, mi chiedo, ripensando a tutte le volte che mi tocca deludere qualcuno rivelando che la maschera è una maschera, che la prima persona può servire a scavare dentro l’invenzione per trovare, protetta dalla sua ombra, una forma di verità diversa, oggi è così impopolare crearsi un personaggio, un io lirico o letterario che non aderisce alla persona che scrive?
Nulla mi toglierà dalla testa che un ruolo lo giochi la dimestichezza ormai ultradecennale che coltiviamo con i social, tutti quanti: chi legge, chi scrive, persino chi non li usa, perché la comunicazione e la produzione culturale si sono progressivamente rimodellate intorno alla loro logica algoritmica. I social rendono accessibile una potenzialità inventiva mai così universale, così vasta, così aperta a chiunque, sia dal punto di vista della creazione che della fruizione: la possibilità di costruire un racconto continuo e continuamente accessibile a un pubblico illimitato, fatto di parole e immagini, un racconto che la struttura stessa del social indirizza verso la direzione autobiografica del profilo personale. Nessuno, certo, ci vieterebbe di usare la possibilità creativa del profilo per inventarci pseudonimi o eteronimi alla Pessoa, versioni alternative, maschere, io inesistenti che prenderebbero vita solo nella narrazione; eppure, finisce che, per lo più, raccontiamo di noi, oltretutto pubblicizzandoci come prodotti in concorrenza con altri prodotti. E per chi scrive anche per mestiere, diventa sempre più difficile resistere alla tentazione di addomesticare lo sguardo su di sé, sulle proprie parole, sulla propria immagine che i social insegnano tanto bene a confezionare e sottoporre all’attenzione altrui.
Anche perché il tempo dissipato senza accorgercene sui social ci ha assuefatti, poco a poco, alla diffusa sensazione di poter conoscere le vite degli altri in presa diretta, come se non fosse già, quel racconto che si fa attraverso le parole e le immagini diffuse sui profili, frutto di scelte narrative, di una selezione ragionata. Un autoritratto selettivo.
In fondo anche da questo, credo, nasce la pretesa di una trasparenza senza nascondimenti: versione aggiornata della critica abborracciata da Rousseau, in una bozza di prefazione alle Confessioni, contro Montaigne: il quale era stato certo un pioniere della scrittura del sé, con quel suo autoritratto cangiante, mosso, che sono i Saggi; ma che – insinua Rousseau – si era ritratto di profilo. Come possiamo essere certi, quindi, chiedeva con sottile malignità, che non abbia scelto il profilo migliore, lasciando nascosta, dal lato in ombra, una cicatrice, uno sfregio, che magari lo sfigura?
Rousseau con quella pagina voleva forse solo accreditarsi come il primo autore di un autoritratto completo (la vanità esiste da ben prima che fossero inventati i social): ma doveva sapere bene che proprio il sospetto della cicatrice rivela la possibilità più vertiginosa della scrittura, di un autoritratto in cui il particolare si dissolve nell’universale, eppure esiste, resiste, perdura.
Oggi ogni cicatrice esigiamo che sia esibita, esigiamo anzi che scompaia la tentazione di nasconderla, il che non sarebbe necessariamente un male nemmeno dal punto di vista creativo, se non fosse per il fatto che il coraggio di mostrare cicatrici è ripagato a vista. Dalla simpatia, da un apprezzamento computabile in like e prestigio, di riscossione immediata, che ci educa a un conformismo di riflesso. L’approvazione che siamo addestrati a riconoscere e cercare come gratifica istantanea è una tentazione continua – la tentazione di dire al signore di Torino: è vero, sono stata tradita. È tutto vero, tutto come ho scritto. E così tradire la scrittura, perché gli occhiali che offrirei servirebbero solo per guardare me.
Basta scorrere rapidamente le novità editoriali per vedere quanto la scrittura del sé oggi prosperi in un ventaglio di declinazioni, alcune straordinarie e perciò irripetibili, come il quarantennale progetto autobiografico di Annie Ernaux premiato col Nobel. Ma per quanto riguarda il fiorire del genere: è una moda, un sintomo, un segno dei tempi? E anche ammettendo che sia moda, da cosa nasce? Forse la cosa più importante, preliminarmente, è ricordare che anche nella scrittura del sé si annidano delle ambiguità costitutive, per quanto tenti di ignorarle quel tipo di sguardo che pretende una forma ingenua e assoluta di autenticità, parola che a mio parere ha poco senso applicare alla scrittura, se la intendiamo come pretesa puritana di sincerità aderente al vero (ma ogni tratto di scrittura non è già interpretazione? che occhiali offriamo, se ci neghiamo il ruolo di artigiani?).
Penso che il vero problema non sia affatto quel che va di moda – se va di moda il genere autobiografico, oggi sotto l’elegante nome di memoir, va benissimo. Il problema è accostarsi a ogni tipo di scrittura carichi di pregiudizi che sovrappongono il gergo dell’autenticità – con le sue pretese di purezza oggettiva, nemiche della scrittura – al lessico psicologistico su persona e personalità. Dimenticando che persona, in latino, è la parola che indica la maschera teatrale, come nella famosa favoletta di Fedro che si apre con una volpe che vede una maschera – personam tragicam forte vulpes vidĕrat – e si stupisce, perché la maschera, non indossata dall’attore, è vuota. Ma è una fortuna che sia vuota. Perché può essere indossata da chi vorrà usarla per raccontare una storia – magari dalla volpe stessa. Che, con la maschera addosso, potrebbe anche scoprire il piacere di inventarsi un eteronimo, una possibilità alternativa di raccontare la sua storia.