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Le vie della natura e quelle del saggio. Sull’ultimo libro di Paolo Pecere

    Nel settembre del 1962 usciva negli Stati Uniti Primavera silenziosa di Rachel Carson. Il saggio – che trattava degli effetti nocivi e potenzialmente catastrofici dell’abuso di pesticidi come il DDT – ebbe un forte impatto sull’opinione pubblica americana, al punto che oggi la sua pubblicazione è considerata idealmente l’atto di nascita del movimento ambientalista. Carson era una biologa marina e nel suo bestseller del ’62 si avvale, ovviamente, di abbondante materiale proveniente da ricerche scientifiche, oltre che di una profonda conoscenza delle basi chimiche della vita. Ma le nozioni scientifiche convivevano con un tipo di approccio diverso, in grado di colpire anche l’emotività e l’immaginazione del lettore (il libro si apre con la descrizione di un ipotetico futuro in cui la primavera sarebbe rimasta senza il canto degli uccelli – da qui il titolo – per colpa degli effetti collaterali dei pesticidi rilasciati nell’ambiente), nonché con un background culturale che includeva filosofi come Emerson e Thoreau e letterati come Emily Dickinson. Fu forse anche per questo che Primavera silenziosa riuscì a incidere così nettamente nel sentire collettivo e a ispirare concrete azioni di attivismo ecologista. 

    Non è un caso che il nome di Carson e del suo libro più famoso facciano capolino nelle prime pagine de Il senso della natura di Paolo Pecere, saggio uscito recentemente per Sellerio. E non lo è nemmeno che l’autore sottolinei appunto quella «sensibilità romantica per l’osservazione dei viventi, il richiamo a ritrovare in sé il “senso della meraviglia” dell’infanzia, l’età capace di cogliere “il vero istinto per il bello e il maestoso”, in cui il “sentire” precede il conoscere». Non è un caso perché anche Pecere nel suo libro, scrivendo di natura, cerca quel medesimo equilibrio tra oggettività scientifica e slancio romantico, tra conoscenze razionali e coinvolgimento intimo. Nella costante consapevolezza che il nostro rapporto con la natura sia qualcosa che si dirama su diversi livelli e che solo un approccio aperto a ogni suggestione (che provenga da una ricerca scientifica, da una propria esperienza o da un libro di filosofia) possa tentare di tenere insieme tutto.

    E in questo il genere letterario del saggio diventa lo strumento ideale per compiere l’impresa. Stiamo parlando dell’essai nel senso più letterale del termine e vicino alle origini montaignane: l’esperimento, il tentativo, il libro che avanzando va costruendo da sé il proprio genere e le proprie regole. Stando così le cose, la buona riuscita di un saggio di questo tipo la si può verificare anche in un certo grado di indefinibilità dell’oggetto letterario che alla fine ci si ritrova tra le mani. È il caso de Il senso della natura, che sebbene – volendo adottare la descrizione più immediata possibile – si potrebbe far rientrare nel filone dei libri di viaggio, di fatto eccede da tutti i lati rispetto i confini di quel genere. 

    Perché, sì, tutto il volume si organizza intorno al racconto di viaggi compiuti dall’autore in giro per il mondo (Galapagos, Amazzonia, Ruanda, Indonesia, Tibet, solo per dirne alcuni), di cui riporta impressioni personali, informazioni sui luoghi visitati, incontri e avventure inaspettate. Ma questa struttura si apre continuamente su altro: dissertazioni filosofiche, digressioni etnografiche, meditazioni spirituali, richiami ad altri autori o a studi scientifici. È come se il viaggio, l’esperienza reale e personale, si trasformasse in pretesto per abbandonarsi alla riflessione teorica; la quale però viene sempre inverata o messa alla prova nel ritorno al racconto dell’esperienza concreta. Una dinamica che mima il rapporto stesso con la realtà, in cui le impressioni empiriche sono costantemente mediate dalle nostre idee, le nostre conoscenze, le nostre letture. 

    «Mi trovo nella foresta amazzonica, ma non posso fare a meno di disputare su Bruno e Spinoza! È inevitabile, dopotutto, poiché insieme a me – oltre a batteri, libri e apparecchi fotografici – viaggia un bagaglio di idee», scrive Pecere nel bel mezzo di una lunga digressione sull’animismo innescata dal racconto dell’incontro con gli abitanti dell’Amazzonia. E più volte l’autore menziona il fatto di portare con sé dei libri e di leggerli, anche mentre sta viaggiando in alcuni dei luoghi più remoti e selvaggi del mondo; un’abitudine che sembra simboleggiare un preciso atteggiamento conoscitivo nei confronti del mondo, la consapevolezza che si può tentare di afferrare la realtà solo lì: nell’incessante dinamica tra ciò che i nostri sensi colgono e il nostro linguaggio pensa. 

    Questa maniera di procedere (che non diventa mai un metodo, ma resta gioco libero del pensiero) ben descrive quello che è o dovrebbe essere il piglio del saggista: una disposizione che si rivela particolarmente adatta a trattare un oggetto come quello al centro del libro. Come trovare, infatti, un senso alla natura quando, fin dall’inizio, è chiaro che ciò che definisce la natura è l’impossibilità di applicargli un significato intelleggibile per l’essere umano? Se viene esplicitamente detto che «la realtà naturale è ciò che rende i fatti in certa misura resistenti alle umane interpretazioni e intenzioni»? 

    Per questo rapportarsi direttamente con la natura è un’esperienza sempre in qualche maniera straniante. Perché anche noi facciamo parte della natura, noi siamo natura, eppure la natura è dove tutti i significati su cui facciamo affidamento per orientarci nei contesti antropizzati dove ci muoviamo abitualmente non valgono più. A più riprese nel libro si descrive l’avventurarsi in ambienti naturali come un evento intrinsecamente spaesante, dove l’essere umano perde i punti di riferimento noti ed è costretto a un impegno cognitivo supplementare per riuscire a comprendere ciò che lo circonda: «L’abbraccio della natura sembra il cedimento a un mondo alieno, dove l’impegno e il godimento umani sono svaniti»; «Bastano poche ore nella foresta per suscitare una transizione cognitiva. Nella città mi oriento con le mie categorie – case e strade, negozi e bagni – che qui non valgono. […] Invece qui i miei sensi sono tesi e attenti, ma stanno muti, incapaci di analizzare il cosmo di colori, suoni, odori e sensazioni tattili»; «Nel paesaggio della foresta primaria, la vista è ovunque ostacolata dai tessuti verdi, ed è sovente ingannata dal mimetismo e da codici cromatici ignoti. Gli animali vivono nascosti. Per orientarsi serve l’udito. Con i suoni i viventi comunicano e si localizzano tra loro. Ma la nostra lingua è uno strumento inadeguato per decifrare questo concerto, e il nostro udito è disabituato a questo ambiente sonoro».

    Del resto, la natura è inafferrabile anche per via di una complessità che la rende irriducibile a qualunque singolo schema conoscitivo. Per avvicinarsi a una sua comprensione bisogna necessariamente sovrapporre livelli diversi. Innanzitutto, quando parliamo di natura possiamo intendere fondamentalmente tre cose diverse: «la natura che percepiamo nell’esperienza quotidiana: l’ambiente sensoriale in cui viviamo»; «la natura di cui parlano le scienze: l’insieme dei fenomeni che avvengono secondo leggi indipendenti da noi»; e infine «la natura di cui parlano mitosapienza metafisica: l’origine di tutti i fenomeni». 

    Bisogna, dicevamo, imparare a far dialogare questi diversi livelli perché da soli non possono dare una immagina della natura adeguata. Non andare oltre le percezioni empiriche significa fermarsi alla superficie. La scienza consente di andare più in profondità e leggere quel «grandissimo libro» scritto «in lingua matematica» che, secondo Galileo, è l’universo; ma se diventa l’unico strumento rischia di chiuderci in una concezione della natura puramente meccanicista (e troppo spesso strumentale), incapace di rendere conto di troppi aspetti fondamentali del nostro rapporto con essa. Il terzo livello è quello che rende ancora valida l’antica metafora del “velo della natura”: oltre i nostri sensi e le nostre teorie scientifiche, la natura resta un grande ignoto, l’inconoscibile fondamento del Tutto di cui si sono occupati mitologie, teologie, metafisiche e tradizioni spirituali; ma anche un approccio totalmente filosofico-spirituale è insufficiente: da solo può condurre a un’idea astratta di natura, perdendo così il contatto con la concreta realtà dei viventi che la abitano. 

    Come tenere insieme i diversi livelli? Come coniugare il senso del sublime che ispira la natura con la razionalità delle scienze naturali? E le più alte speculazioni filosofiche con ciò che c’è di significativo e unico delle nostre esperienze di individui? Una risposta definitiva non c’è. Si va a tentativi, ed eccoci tornati allo spirito del saggismo: il genere più attrezzato quando si ha che fare con una complessità inestricabile, perché non pretende di sciogliere la matassa, ma è capace di girarci attorno, di guardarla da più punti di vista per arrivarne a coglierne sempre qualcosa di più. 

    Tra le pagine de Il senso della natura si può trovare una bella metafora (involontaria) di come lavora il saggista. Raccontando dell’esperienza di alcune immersioni nell’Oceano Indiano e dell’incontro con la varietà della vita sottomarina («la vita sott’acqua è il contrario di un aldilà trascendente di pure anime; esplorarla è un esercizio per capire che altri sensi, altre menti precedono la nostra, come strati profondi che si trovano nella nostra coscienza») Pecere si sofferma sul polpo, un animale dotato di una intelligenza molto sviluppata e insieme radicalmente diversa dalla nostra, in quanto dotato di un sistema nervoso decentralizzato, come se avesse una mente multipla. Come pensa il polpo? Com’è la sua coscienza dall’interno? Farci queste domande significa avventurarsi sui confini di ciò che per noi è inconoscibile, lavorare d’immaginazione e fare ipotesi partendo da ciò che possiamo sperimentare (può darsi che alcuni nostri stati alterati di coscienza si avvicinino alla normalità con cui il polpo esperisce il mondo), ma anche accettare di poter arrivare solo a risposte incomplete e dubbie («ma il mio racconto deve includere l’incomprensione, e la mancanza»). 

    A un certo punto viene spiegato come l’intelligenza del polpo si manifesti principalmente esplorando ciò che lo circonda. Si legge che «il polpo tasta l’ambiente e questo è il suo modo di pensare». Ecco, si potrebbe dire che anche il saggista pensa tastando. Il pensiero saggistico si esprime rigirandosi tra le mani i propri oggetti di studio, così come i polpi «armeggiano, fanno tentativi, girano e rigirano il problema» (parole del filosofo della scienza Peter Godfrey-Smith, citato in nota).

    Insomma, il saggismo è un tipo di coscienza fluida, che passa attraverso il filtro dell’esperienza individuale. In questo trova similitudini con altri sistemi di conoscenza alternativi alla pura e astratta razionalità scientifica, come le credenze animistiche. All’animismo, lo accennavamo prima, Pecere dedica un lungo excursus nel capitolo incentrato su un suo viaggio nella foresta amazzonica. In queste pagine vengono chiamati in causa molti antropologi e pensatori che hanno studiato e spiegato l’animismo delle popolazioni amazzoniche. Ma, verso la fine del capitolo, l’autore si ferma a riflettere su come forse le descrizioni etnografiche siano un modo in cui quel tipo di pensiero viene ricondotto a schemi troppo astratti per contenerlo. Come se l’animismo non fosse tanto una dottrina quanto una prassi, un modo di rapportarsi con la natura, qualcosa che sta più nella sensibilità personale che nei miti tramandati dagli sciamani. È una realtà che si può conoscere andando nella foresta:

    Mentre m’incammino tra gli alberi nodosi e i suoni della foresta, l’animismo mi si presenta non tanto come una teoria che si sviluppa sul piano discorsivo, ma come un’intuizione che attinge a dimensioni non-umane della realtà, dove l’io perde certezza della propria separatezza dal mondo, incontra altri soggetti che si manifestano sotto altre forme e che possono avere importanza per la sua vita e la sua morte.

    Perché, in fondo, più della natura in sé (che resta sempre qualcosa al di là della nostra comprensione) ciò che si può conoscere, ciò di cui si può parlare, è la nostra relazione (le nostre possibili relazioni) con essa. Si pensi all’amore per i paesaggi naturali. Il paesaggio non è puro ambiente, è «natura percepita attraverso una cultura». Nei peggiori dei casi il gusto per il paesaggio può essere qualcosa che si intromette tra noi e la natura, frapponendo le sue immagini stereotipate e impendendo così un rapporto reale e immediato con l’ambiente; ma nei migliori è una via felice attraverso cui assimilare l’ambiente senza cancellarlo, introiettarlo, costruire un nesso tra la natura e la propria interiorità. Il che può essere anche una spinta efficace verso la formazione di una coscienza ecologista, che per essere reale e sentita (come già aveva capito Rachel Carson negli anni ’60) non può basarsi solo sui dati razionali, ma necessita di un qualche tipo di coinvolgimento sentimentale. 

    Del resto, proprio come il paesaggio, anche l’idea di natura incontaminata, di “natura selvaggia”, è soprattutto una nostra costruzione, un nostro mito. Anche la “purezza” della natura è un attributo che poniamo noi quando decidiamo di impegnarci a conservare quella natura. È l’idea che sta alla base del concetto ossimorico di “parco naturale”, cioè di uno sforzo umano per proteggere la natura dall’uomo stesso. Dunque, anche parlando della causa della preservazione della natura continuiamo a parlare di relazioni, perché «non si conserva la natura, bensì una specifica relazione tra l’ambiente e i suoi abitanti (non solo umani), che ha molte varianti e continua a variare».

    Ma le relazioni con la natura più intense e commoventi presenti nel libro di Pecere sono quelle che passano attraverso l’incontro con gli animali selvatici. Che si tratti di specie diversissime da noi (come il polpo e le altre creature marine) o di nostri prossimi parenti (come le comunità di gorilla in Ruanda) il confronto con l’animale è il momento che porta all’estremo quel contradditorio senso di straniamento dato dal contatto diretto con la natura, in cui si mescolano percezione dell’assoluta alterità e intuizione di un possibile riconoscimento reciproco, sentimento di un’istintiva affinità ma anche riaffermazione di una incolmabile distanza.

    Prima di concludere vorrei riportare un passo che ben riassume questa ambivalenza. Siamo al largo delle Galapagos, l’autore sta viaggiando a bordo di una nave insieme a una famiglia di ricci turisti e Pierre, un naturalista francese. Una mattina accanto alla barca appare una balena e l’autore si tuffa per poterla vedere da vicino:

    La Balena mi appare come un animale-mondo, una natura cui voglio ricongiungermi, pura come l’infanzia, l’età in cui ne ho visto la figura mentre ero immerso in libri larghi come le mie spalle. Ma nel momento dell’incontro quel desiderio è messo alla prova. Certo, di quel cetaceo – una megattera – molte cose che sono note ai pragmatici balenieri e ai naturalisti mi sfuggono, e sulle mie lacune getto ponti di fantasia.

    Io e Pierre smettiamo di agitare le pinne: la massa scura dell’animale s’allarga sul fondo opaco del mare. Subito vedo l’occhio, e la seconda balena nascosta: il corpo immane della madre eclissa quello del figlio neonato. Intanto la spinta riduce la distanza a pochi metri, siamo quasi a contatto. Mentre la madre inarca lentamente verso destra mi osserva con attenzione, con una calma ferma, intelligente. Forse la mia è una proiezione, almeno in parte, come quella di Achab che in quegli occhietti attenti leggeva uno scherno diabolico; o forse no, e del resto, come non cercare somiglianze? La struttura del mammifero, l’occhio che diventa sguardo, svelano remote affinità che ci rendono reciprocamente decifrabili, segnalano una possibile intesa, che l’entusiasmo mi fa scambiare per benevolenza. La distesa grigio-azzurra della pelle sembra invitante, desidero toccarla. Tendo le braccia, incrocio le pinne e mi slancio in avanti: amica!

    Ma qualcosa mi blocca, poi mi tira indietro. È Pierre, che impedisce il mio folle tentativo di abbraccio. La balena comunque ha già reagito: con un impercettibile moto ha accelerato la torsione, scorre veloce come un pianeta che si allontana con il suo piccolo satellite dalla navicella del mio corpo.

    In queste righe c’è quasi tutto: l’incontro con l’alterità dalla natura che è prima di tutto mediato dall’immaginazione (nutrita di curiosità infantile, ma anche di reminiscenze letterarie); la scoperta della possibilità di una comunione con l’animale, in uno sguardo reciproco che sembra attivare un canale di comunicazione e fa emergere le affinità, il substrato originario comune, tra balena e umano, rende concreta la possibilità di una intesa; poi l’illusione di potersi spingere verso un’ulteriore vicinanza che viene bruscamente delusa. Il desiderio di superare del tutto quella alterità resta frustrato, la completa fusione con la natura resta irraggiungibile, sempre a un passo più in là di quello che si riesce a compiere. Restiamo comunque al di qua del velo e non possiamo fare altro che continuare a girarci attorno.

    Marcello Conti

    Marcello Conti (1992) è giornalista professionista. Ha studiato letteratura italiana a Torino e giornalismo a Bologna. Ha scritto per diverse testate, tra cui Repubblica e Il Tascabile. È autore del podcast Sottolineature, dedicato alla saggistica.