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“L’estate che ho ucciso mio nonno”. Tre domande a Giulia Lombezzi

    In occasione dell’uscita in libreria del suo secondo romanzo, abbiamo chiesto a Giulia Lombezzi, docente del nuovo laboratorio online Che tragedia! e ex allieva della Scuola annuale di scrittura, di rispondere a tre domande su L’estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri 2025).

    Buona lettura!

    1. Da quale personaggio, immagine, idea sei partita per scrivere L’estate che ho ucciso mio nonno?

    Era da tempo che mi sentivo provocata dal concetto di cura, dall’idealizzazione con cui si racconta il prendersi cura, soprattutto per quanto riguarda le donne. Attribuirci una particolare attitudine alla cura non è altro che un modo per deresponsabilizzare gli uomini. 
    Ho voluto raccontare, a rischio di rasentare lo splatter, cosa significhi prendersi cura di una persona anziana, a che livelli di spersonalizzazione può condurre il caregiving se non gestito con la dovuta tutela.

    Mi interessava inoltre il discorso dei debiti e crediti d’amore all’interno della famiglia. Si dice che l’amore dei genitori è incondizionato e incomparabile. Secondo me non sempre è vero, e in ogni caso può esserlo anche l’amore dei figli.
    Il concetto di amore incondizionato resta comunque pericolosissimo: cosa succede quando questa mancanza di condizioni porta gli individui a perdere completamente la lucidità?

    Volevo esplorare poi il processo tramite cui una situazione abbastanza ordinaria, cioè un anziano che viene a vivere con figlia e nipote, diventa parossistica, a un punto tale da far emergere, nella nipote, istinti omicidi. Credo che tutte e tutti noi siamo miniere di Moria che celano nel fondo un Balrog; il punto è semplicemente chi e come lo risveglia.
    Ci si sorprende dei casi di nera avvenuti in famiglie “assolutamente normali” (che poi, come si riconoscono? Esistono?) ma a volte basta che la tensione fra gli elementi di un nucleo apparentemente inoffensivo degeneri senza controllo e si arriva al sangue.

    Mi interessava parlare di questo tipo di tensione, raccontare di famiglie che si definiscono tali solo durante le riunioni natalizie ma nei fatti non costituiscono riparo né rete, nessuno viene tutelato o ascoltato abbastanza; in questo modo si generano solitudini, e si sa, nella solitudine si delira facilmente.

    2. Come hai lavorato sulla voce della protagonista, Alice? A quali riferimenti ti sei ispirata?

    Una voce che da sempre mi galvanizza e che ammiro moltissimo è quella di Yasmina Reza: priva di pudore, scevra da buonismi e retoriche, pronta a scarnificare le situazioni più innocue e trovarci dentro la nausea. Leggere il suo Serge è stata un’epifania, ho capito che volevo procedere nel mio romanzo con la medesima schiettezza, stando in bilico fra dolore e risata.
    Altra opera a cui devo tanto è Lamento di Portnoy di Philip Roth, per la maniera in cui il protagonista spiana davanti al lettore ogni tassello del proprio sentire, anche quelli meno socialmente accettabili. A tratti è insopportabile, nel senso che lo si manderebbe volentieri a quel paese, per usare un francesismo: ma forse proprio perché racconta pulsioni che in fondo non sono estranee a nessuno, si sta con lui fino alla fine. Volevo questo, per Alice. Non dover fare sconti in nome di alcun tipo di simpatia. Lei è quello che è, una persona che splende e fa schifo senza soluzione di continuità.

    Poi sicuramente il fatto di frequentare moltissime persone giovani (insegno teatro e scrittura creativa in scuole medie e superiori da anni) ha fatto sì che mi venisse naturale prendere un certo linguaggio e mettermi a giocarci, perché il parlare delle nuove generazioni mi incanta e già so che parte del lessico che costituisce il libro sarà presto datato, ma credo (e spero, perché mi farebbe comodo) che scrivere voglia dire anche accettare di essere superati dallo scorrere della storia e del costume.

    3. L’estate che ho ucciso mio nonno è il tuo secondo romanzo: che punti di contatto ci sono con La sostanza instabile, il romanzo con cui hai esordito nel 2021? Come è cambiata da allora la tua scrittura? In quali modi o direzioni si è evoluta? 

    Sicuramente mi sono fatta più male, perché sebbene non sia una storia autobiografica si avvicina a temi che mi urtano in maniera frontale. Ciononostante, o forse proprio per questo, per riprendere fiato tra le apnee, ho potuto dispiegare anche la mia vena comica, che nel primo romanzo emerge meno, e in generale nella stesura mi sono sentita molto più libera, se non, ogni tanto, addirittura travolta: c’erano momenti in cui era la storia che mi chiedeva di essere scritta, non io che decidevo di metterci mano. Sembra un discorso da fanfarona, ma è proprio così. Il cervello si attiva di una vita parallela e ti assilla con idee e immagini, con flussi interi di parole, spesso nei momenti meno opportuni. E quindi rispetto alla prima volta c’è stato senza dubbio uno scorrere della prosa più organico e selvatico.
    Come punti di contatto direi che torna il tema dell’identità, di cosa vuol dire e come ci cambia incontrare la parte peggiore di noi. A livello strutturale rimane l’amore per i dialoghi, ai quali penso faticherei a rinunciare.

    Giulia Lombezzi

    Autrice e regista teatrale, nasce a Milano nel 1987. I suoi testi vanno in scena in tutta Italia, in Svezia, in Polonia e in Iran. Nel 2017 vince la borsa di studio per la Scuola annuale di scrittura di Belleville con il racconto La vita è un gioco. L’anno successivo vince il concorso “Il titolo e altri racconti” con Fuga in fa maggiore. Attualmente è rappresentata da The Italian Literary Agency. Ha pubblicato i romanzi: La sostanza instabile (finalista al Premio Calvino 2020, Giulio Perrone Editore 2021) e L'estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri 2025.)