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Gli scrittori arrivano, ma dove vanno?

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    C’è un verso che mi ha sempre commosso e a cui mi è capitato di pensare molto spesso nelle situazioni dolorose con cui mi sono ritrovata a confrontarmi: “Vivere la vita non è attraversare un campo”. Somiglia molto a quello che mi disse un mio insegnante durante un laboratorio, quando osai protestare per l’eccessiva difficoltà di una coreografia che non mi riusciva: “La vita è difficile”. Lo è davvero.

    Difficile è senza ombra di dubbio l’aggettivo che mi sono sentita appioppare più spesso, da quando sono entrata a far parte del mondo editoriale in qualità di scrittrice, ma non credevo che quello che consideravo se non un pregio, di certo una peculiarità che nella letteratura aveva sempre trovato dimora, si fosse trasformato in un elemento di sospetto, qualcosa da correggere o di cui quantomeno avrei fatto meglio a liberarmi al più presto. Confondevo editoria e letteratura. Non avevo capito niente.

    L’impatto, anni fa, è stato doloroso. Dal mio osservatorio protetto e selvaggio (famiglia anarchica, nessuna conoscenza o amico in ambito editoriale), avevo fantasticato sul mondo dell’editoria, eppure non avrei mai pensato che le mie fantasie corrispondessero così precisamente al vero. Era un mondo totalmente manchevole di immaginazione, anche solo nelle dinamiche di potere che lo governavano. Avevo certo sperimentato il sopruso, la manipolazione, atti di abuso e prevaricazione anche nel mondo proletario da cui provenivo, ma in forme più sfumate, più complesse, di certo più originali. Ed ecco che in editoria, nel mondo intellettuale, si palesavano i rapporti di forza più banali che avessi mai incontrato, come aver a lungo immaginato l’inferno e ritrovarselo proprio così, con diavoletti dalla coda infuocata e forca in mano: cricchette di ogni tipo che si recensivano a vicenda senza vergogna; ribelli che erano cresciuti nei salotti letterari più borghesi e si spettinavano i capelli con la stessa maniacalità con cui avrebbero potuto lucidare un macchinone; reati di lesa maestà e accuse di rosicamento, se osavo criticare uno scrittore più in alto di me (un’altezza misurata in esperienza – ovvero in numero di libri pubblicati e grandezza dell’editore – non in bravura, tecnica o sguardo); critiche alla mia eccessiva ambizione; complimenti non supportati da un’effettiva lettura di ciò che avevo scritto o complimenti che celavano una richiesta al loro interno, spesso una forma di ricatto; bullismo velato; le mie prime volte con il maschilismo spinto; vittimismo tronfio; insomma, forse, la vita. Se la famiglia e il piccolo universo da cui provenivo avevano cercato di proteggermi da questo genere di compravendita, il mondo in cui avevo fatto il mio ingresso da adulta, per scelta e forse vocazione, mi sbatteva in faccia ciò che ero certa di non sapere affrontare: come chiamarlo, forse mondo adulto? Provincialismo? Potere? Una lotta tra poveri che non parlavano di soldi né di povertà? E di cosa parlavano allora? Che cosa c’era in ballo?

    Lungi da me dipingermi come un’innocente, la ragazzina che piomba nel mondo dei cattivi e qui viene ferita. Tutt’altro. Se c’era un aspetto in cui la mia immaginazione aveva fallito era la mancanza di severità che mi aveva improvvisamente circondata dopo la pubblicazione, una severità di cui registravo l’assenza proprio nel momento in cui mi ero maggiormente esposta: il mondo delle lettere non era esigente, non criticava, non stroncava. Non era, lui, difficile. Era – questa la parola che mi veniva in mente più spesso all’epoca – buono. Sembrava di ritrovarsi circondati dalla bambagia, una specie di culla in cui gli scrittori erano forzati a dondolarsi, a venire dondolati. Su trenta libri che uscivano, ventinove erano belli, anzi bellissimi. Gli scrittori avevano uno stile potente. Gli esordienti erano quasi tutti promesse. Questa infinita generosità di giudizio mi turbava, soprattutto se confrontata alle spiccate dinamiche di potere che agivano nelle segrete del palazzo. La stessa identica sensazione che provavo quando ero studentessa alla facoltà di lettere e vedevo il mio libretto e quello dei miei amici riempirsi di trenta e lode, voti sproporzionati e totalmente fuori luogo rispetto alla nostra preparazione effettiva e che in un certo senso ci umiliavano. Ricordo di aver risposto esterrefatta a un mio professore di retorica quando, dopo un esame davvero mediocre, mi comunicò il mio voto. “Trenta e lode?”. “Trenta e lode” mi aveva risposto come a dirmi che non avrebbe potuto fare altro.

    Quei voti di eccellenza avrebbero abbellito i curricula di un esercito di disoccupati. Questo era il fondamento – credo – del sentimento di umiliazione che provavamo nell’essere premiati. Accarezzati. Blanditi. Un sistema che premia con estrema facilità prestazioni mediocri è un sistema in cui vigono altre regole. Regole che non hanno niente a che fare con la bravura e l’eccezionalità dei membri che ne fanno parte. Regole sregolate.

    Da qualche tempo seguo su youtube un musicista e vocal coach, soprannominato nell’ambiente “il picconatore”, per la sua (cossighiana?) virulenza nel criticare l’industria musicale a cui infligge, video dopo video, le sue per l’appunto picconate. Il suo nome è Luca Jurman e parla di jazz e di soul con piglio carbonaro, senza tralasciare le varianti cancerogene – sedicenti moderne – che ha assunto l’arte del canto applicata ai talent. Talent di cui lui ha in passato fatto parte come docente e da cui ha deciso improvvisamente di uscire. Rosicone? È possibile fare un discorso onestamente critico senza tirare in ballo questa parola? È davvero così inverosimile pensare che a un artista non interessi (solo) avere successo?

    Il caso Jurman (che peraltro si è beccato varie denunce dalla Fascino Pgt, società di Maria De Filippi, e dalle reti RTI per aver definito Amici un “teatrino di incompetenti” e una lobby) è particolarmente interessante per mille motivi e nell’ascoltarlo la mia mente produce parallelismi pressoché esatti tra il mondo dell’industria musicale e quello dell’industria letteraria; la mia è quella che – prendendo in prestito un’immagine di Deleuze – potrei definire una fuga da ferma. Ferma perché continuo a scrivere e a pubblicare, ma anche perché una mia potenziale critica al sistema di cui sono ormai una componente verrebbe immediatamente depotenziata dal mio essere parte in causa, quindi invidiosa, sfigata, per l’appunto rosicona; eppure fuga, perché nell’osservare ciò che accade in un’altra arte posso capire qualcosa su ciò che forse sta accadendo nella mia.

    A proposito del lettore. Alle medie avevo un compagno che la professoressa di mate giudicava idiota. Lo trattava da idiota, gli dava esercizi facilitati, aveva deciso che fosse idiota. Ci siamo persi di vista, ma a scuola non ha mai combinato granché, anzi, ha soddisfatto pienamente le aspettative della sua insegnante: essere idiota. Nella sua testa deve essersi sviluppata una forma di pigrizia, una pigrizia in qualche modo inculcatagli dalla sua insegnante, a cui lui ha certamente acconsentito perché essere idioti, possiamo dirlo, è infinitamente meno faticoso che essere intelligenti.

    I ragazzi che partecipano ad Amici di Maria De Filippi hanno tra i diciassette e i venticinque anni. Si espongono in televisione, scrivono pezzi, contano gli streaming. Sono piccoli uomini e piccole donne che si affacciano al mondo adulto e ricevono feedback continui sulle loro prestazioni in termini di successo, condivisioni, in sostanza in termini di fatturato. La trasparenza con cui creano, producono e condividono i loro pezzi è inquietante, dal momento che li priva di ciò di cui un’artista ha più bisogno, ovvero la solitudine; la possibilità di sviluppare un percorso sotterraneo che sia precluso a occhi estranei; la calma di crearsi un proprio immaginario, una voce; di affinare la tecnica; la maestria di addomesticare le proprie ossessioni, di superare le difficoltà invece di aggirarle. Questa frenesia e questa ansia performativa sembrano andare di pari passo con una strabordante generosità di giudizio nel valutare le prestazioni dei ragazzi: frasi come “sei incredibile”, “sei pronto per il palcoscenico”, “mi sei arrivato tanto” o l’ormai ubiquitario “spacchi” vengono elargite con una frequenza disarmante a descrivere performance talvolta imbarazzanti, appesantite da chili e chili di autotune e post produzione oltre che da testi scritti da autori mediocri, o meglio da dei bambini. Bambini che, nella maggioranza dei casi, non sanno scrivere e non sanno cantare. Bambini che, annegando nella cascata di questi complimenti sperticati, vengono – in maniera subliminale, certo – umiliati.

    È difficile pensare che elogio e umiliazione possano talvolta essere due facce della stessa medaglia. Come esseri umani, siamo generalmente spinti a credere che ci sia sempre qualcosa di irritante nella franchezza con cui qualcuno si esprime sul nostro conto in maniera negativa, mentre chi ci adula, anche quando la natura menzognera delle sue parole è palese, ci appare sempre sincero. Che motivo avrebbe di mentirci? L’ambiguo, lo sporco, la cattiveria stanno sempre nel giudizio negativo; l’adulazione è pura.

    Ripenso all’esercito di studenti preparati e irrilevanti di cui all’università facevo parte anch’io. Che ne è stato di loro? Quasi nessuno ha proseguito gli studi, quasi nessuno ha avuto carriere accademiche brillanti né ha scritto opere letterarie di grande valore; in pochi, tra cui io, hanno svolto un pigro dottorato per poi dedicarsi a lavori più concreti e nessuno ricorda quasi più nulla dei libri su cui aveva speso poca o tanta energia. Quel lassismo valutativo che ci dipingeva tutti come piccoli portenti aveva rivelato la sua vera faccia, l’offesa che celava al suo interno: ciò che state studiando è talmente insignificante che non vale la pena fare distinzioni tra chi ha letto svogliatamente, chi ha studiato bene, chi ha colto in profondità e ha vissuto sulla propria pelle ciò che ha letto. Siete tutti bravi. Siete tutti uguali.

    Anche nei talent, come in qualsiasi arte, arrivano talvolta ragazzi estremamente dotati. In un rovesciamento che Jurman evidenzia molto bene, spesso a questi ragazzi – che si distinguono per qualità canore fuori dal comune, studio e quella sensibilità che li porta a essere poco televisivi – vengono di rado elargiti complimenti; al contrario, lo sguardo nei loro confronti è sempre sospettoso. Come se nella maestria tecnica che possiedono, nel registro espressivo a cui hanno accesso, nei limiti che si propongono di superare, si nascondesse qualcosa di antipatico o – questa la parola che viene pronunciata più spesso – di antico. “L’intonazione è una visione antica della musica” ha detto uno degli insegnanti della scuola, una frase contro cui Jurman ha scagliato le sue più virulente picconate. L’impressione che in letteratura stia avvenendo qualcosa di simile non mi abbandona. Così mi sono chiesta se, nella ricerca stilistica ed espressiva, nella sperimentazione, nell’atto di coltivare un proprio immaginario, al di là di tematiche e biografie, ci sia davvero qualcosa di antico.

    Nei discorsi di alcuni scrittori di successo, così come nelle critiche favorevoli che a questi scrittori vengono mosse, spesso incontro riferimenti alla modernità: affronta temi attuali, utilizza il linguaggio dei giovani, parla di noi. Ma cosa significa essere moderni? L’arte deve esserlo? Deve parlare di noi? Se mi faccio fotografare, otterrò la mia foto. Se chiedo a Picasso il mio ritratto, lì mi ritroverò trasfigurata. Le preferenze del mercato sono palesi, eppure i libri che più mi hanno commossa e ferita nella vita sono stati quelli in cui percepivo una sostanza lontana, qualcosa che mi parlava e avrebbe continuato a parlarmi benché non la conoscessi a pieno; i passi di danza che mi sembravano compiuti da un dio; le canzoni che non parlavano di me; che non riuscivo a cantare.

    “Non mi arrivi” è una frase emblematica e ha a che fare con una strana idea di seduzione. Non ho particolare simpatia per gli spiegoni etimologici ma in questo caso mi tocca: “sedurre”, ovvero “portare a sé”, nella variante di “condurre fuori dal retto cammino”. Che l’arte abbia molto, se non tutto, a che fare con la seduzione credo sia rimasto uno dei pochi dati oggettivi a cui ancora possiamo appigliarci, eppure sono sempre più merce rara quegli artisti che invece di pensare ad “arrivare” – al pubblico, alla critica, al lettore medio – si concentrano sul movimento opposto, quello di attrarre: non tanto descrivere al lettore ciò che già sa – a mo’ di conferma del suo mondo, del suo sguardo –, non tanto corrergli incontro o come si dice sempre più spesso “prenderlo per mano”, ma farlo andare con le sue gambe dove non è mai andato, in quel posto inquietante, eccezionale, ignoto in cui solo l’arte può portarci.

    Ripenso a ciò che il più grande genio del nostro tempo, David Lynch, ha affermato a proposito del suo Inland Empire: “Il film è mio e ci metto tutti i conigli che voglio!”: tutti i conigli, che il mondo ne sia pieno o no; a prescindere da quanti l’editore vorrebbe cassarci; da quanto siano realistici o moderni; da quanto corrano veloci; tutti i conigli che vogliamo.

    Valentina Maini

    Valentina Maini scrive e traduce. Ha pubblicato un romanzo (La mischia, Bollati Boringhieri) e una raccolta di poesie (Casa rotta, Arcipelago Itaca). Tra le sue traduzioni più recenti, Vuoto d’aria di Clémentine Haenel, Alla gola di Henry Hoke e Riddance di Shelley Jackson.