[one_third]
[/one_third]
[two_fifth]
Matteo Speroni
>> Il gioco di Taurus
[/two_fifth]
[four_fifth]
1
Accompagnata da un breve suono a bassa frequenza, si accende la luce bianca sotto il numero 5. Il colonnello Giacchetti sobbalza, apre gli occhi, si drizza sulla branda, fissa il muro davanti a sé, inspira, si carezza la testa per misurare la lunghezza dei capelli, grigi e radi ma ancora fluenti sulla nuca, espira fino all’apnea e solo allora scaglia lo sguardo verso la plafoniera metallica posta in alto, sulla parete a destra. A ogni lampadina corrisponde un numero, come nella pulsantiera di un ascensore, ma la sequenza è orizzontale, in ordine decrescente.
Il cinque?, sussurra il colonnello.
Il suo corpo è percorso da un tremito. Un paio di secondi di esitazione.
Forza Ermanno, vai.
Gomiti larghi, Giacchetti fa leva con il palmo delle mani massicce sulle ginocchia ma, appena in piedi, sente le caviglie scricchiolare e una lieve fitta alle giunture. Cinque metri, quelli necessari per raggiungere un piccolo tavolo di fronte al letto sul lato opposto della stanza, dove sono appoggiati alcuni fogli bianchi e un carboncino, e il dolore è già quasi svanito.
Si accomoda sulla sedia di alluminio. Alla sua destra, incastonati nel muro, un altoparlante nero e un piccolo microfono, anch’esso nero. L’uomo sillaba monotono.
“Ermanno Giacchetti, sessantacinque anni, colonnello in pensione, fino a tre anni fa in forza alla quarta compagnia, secondo battaglione, terzo corpo d’armata dell’esercito italiano, sezione logistica del genio militare. Con chi parlo?”
L’altoparlante emette un fruscio, seguito da un sospiro.
“C’è qualcuno?”, incalza Giacchetti.
“Mi sente?”, tremola una voce femminile.
Il colonnello chiude gli occhi, si curva sullo schienale, il capo reclinato all’indietro.
“Anche una donna”, mormora.
Riapre gli occhi, abbandona lo sguardo verso il nulla là in alto.
Le labbra si schiudono in uno stanco
“Buongiorno signora. Lei chi è?”
“Mi chiamo Laura Filo – la voce prende anima – sono una maestra elementare, sono anche io in pensione.”
Silenzio.
“Signore?”
“Dica”
“Ho paura, tanta paura. Lei sa dove mi trovo? E lei dov’è? Può aprirmi la porta per favore. Mi ha rapito lei? È stato lei? Perché?”
Il colonnello muove meccanica la mano destra alla ricerca di un pacchetto di sigarette che non c’è, avvicina appena la testa al microfono.
“No signora.”
“Filo, Laura Filo.”
“Signora Filo, non sono stato io.”
“Allora venga a liberarmi, la prego.”
“Non posso.”
“Mi dica almeno che cosa sta succedendo, in quale posto mi avete portata. Chi siete voi?”
“Glielo direi volentieri. Il problema è che vorrei saperlo anch’io.”
“Una guerra? È scoppiata una guerra? Mi aiuti, la scongiuro.”
Giacchetti impugna il carboncino. Prende nota sul blocco: Laura Filo, maestra in pensione.
“Quanti anni ha, signora?”
“Sessantadue, perché?”
“Solo per capire qualcosa in più.” Aggiunge 62 all’appunto.
Dall’altoparlante esce un singulto.
“Allora mi state processando.”
Il tono della donna si fa più controllato.
“Siete dei servizi segreti? Ecco, registri pure tutto, vi assicuro che io non c’entro nulla, c’è un errore, vi state sbagliando. Un terribile errore. E comunque ho diritto a un avvocato. O almeno chiamate mia figlia.”
Una cascata di singhiozzi erompe dal diffusore vocale.
Il colonnello concede qualche secondo allo sfogo.
“Cerchi di rimanere calma e mi stia a sentire.”
La griglia nera sul muro si fa muta per alcuni secondi.
“D’accordo.”
“Mi dica innanzitutto in quale luogo si trova.”
“Sono in una stanza bianca senza finestre. C’è solo una porta d’acciaio. Nella parte bassa della porta c’è uno sportellino.”
“Uno sportello. Certo. Vada avanti. Dove è lei adesso? Intendo, all’interno delle stanza.”
“Sono seduta a una scrivania.”
“Che cosa vede davanti a sé?”
“Fogli bianchi e un carboncino.”
“Più a destra?”
“Sul muro?”
“Esatto.”
“C’è l’altoparlante da cui esce la sua voce. Appena sotto, un altro aggeggio, forse un microfono.”
“Ancora più a destra? Ruoti la testa, sul muro in alto.”
“Sul muro in alto? Quale?”
“Quello alla sua destra.”
“C’è solo una griglia con delle luci e dei numeri, uno per ogni lampadina.”
“Immaginavo. Quanti numeri vede?”
“Nove. Nove numeri e nove lampadine.”
“Ora mi ascolti bene. Una delle lucine è accesa?”
“Sì, si è accesa poco fa, con un trillo, no, un suono più sordo. Poco dopo ho sentito la sua voce.”
“Quale numero è illuminato? È importante.”
“Il nove.”
Gli occhi dell’ex militare corrono alla plafoniera, Giacchetti la fissa fino a che attorno alla lucina bianca brillante sotto il 5 si forma un alone sfocato, pulsante.
“Colonnello?”
“Sono qui, signora.”
”Per carità, mi vuole spiegare qualcosa?”
“Per il momento posso solo supporre che io sono il numero nove e lei …”
Un rumore fastidioso, la luce sulla plafoniera si spegne.
“… Il cinque, signora, da adesso fino a chissà quando, temo che lei sarà il numero cinque.”
Ma il colonnello lo dice a se stesso.
Prende il carboncino e, sul margine del foglio, traccia una linea curva tra due nomi, associati ad altrettanti numeri: Laura Filo (5), Andrea Cavilli (7).
Qualche tempo prima, Andrea Cavilli, 50 anni, direttore commerciale di un’importante azienda che opera nell’elaborazione dei dati personali raccolti dai social network, non avrebbe mai pensato che sarebbe diventato, nello spazio di una notte, il numero 7.
Uscì dall’ufficio alla periferia nord di Milano alle nove di sera, dopo una giornata di guerriglia. I suoi ragazzi lo avevano fatto impazzire. Se una ditta di scarpe tipo sneaker chiedeva entro giovedì un rapporto su quanti mi piaceavevano ottenuto durante i primi sei mesi dell’anno le pagine facebook dei nuovi rapper italiani, non era ammissibile che i dati fossero pronti venerdì, con un giorno di ritardo. Perché? Perché c’è il weekend. La ditta li vuole il giovedì per fare partire già il lunedì la discussione sulla nuova strategia commerciale. Non martedì. Lunedì. Se si spreca un giorno questo mese, magari un altro il prossimo, succede che a fine anno la ditta di scarpe può avere bruciato persino una dozzina di giorni lavorativi. Il fatturato va giù, il prossimo anno si perde il cliente e voi, cari ragazzi, niente più contrattino, tutti a casa. Ma loro non riuscivano a ingoiare il concetto. Allora, giù frustate. Anche impugnare la frusta è faticoso, avrebbero dovuto rendersene conto, portare rispetto e galoppare più veloce.
L’auto di Cavilli correva in tangenziale, in circonvallazione, per rallentare nella via tranquilla di Città studi, cancello dei box, telecomando.
Non funziona? Meglio scendere e aprire con la chiave.
Guarda un po’ questi qui come lavorano male, è sempre guasto.
Dolore fortissimo al cranio, bagliore argenteo, cervello che sballotta, forze che colano a terra, buio.
Un suono remoto, la sirena di un sottomarino. Risveglio, sensazione di essere rotolato giù da un burrone. Principio di coscienza. Tra le palpebre appiccicose, una lucina. Sotto, una lettera, un carattere ondivago, forse una cifra, un numero. Il numero 9.
Cavilli non lo sapeva, ma il numero corrispondeva alla stanza del colonnello. Cavilli non poteva ancora immaginare che in quel momento era stato stabilito un contatto con un altro prigioniero, il primo di una lunga serie di dialoghi, sempre e soltanto a due, che da lì in avanti avrebbero costituito l’unica distrazione da se stesso, la sola angusta feritoia da cui i suoi pensieri sarebbero potuti evadere dalla scatola cranica.
Da quando era lì dentro, anche per il colonnello la prima voce udita fu quella del manager, prima ancora di quella della maestra Laura Filo.
“Lei è fortunato – insinuò Giacchetti a Cavilli durante la loro breve conversazione – appena arrivato parla già con qualcuno. Io ho passato settimane da solo senza scansione del tempo. A proposito, la luce all’interno della stanza è comandata da un interruttore a fianco della branda. Se almeno fosse automatica, a tempi regolari, funzionerebbe come un sole artificiale.
La danza tra il giorno e la notte, la luce o il buio, dipende dal prigioniero, dal suo dito su un pulsante, dalla scelta del clic.
“E stia sempre attento a quello che dice – aggiunse il colonnello – è molto probabile che qualcuno ci ascolti.”
Suono lugubre della sirena, la luce sotto il 9 svanì.
La camera di Cavilli tornò muta, il manager si trascinò verso la branda. Lottava con il dolore alla testa, cercava di ragionare.
Calmati Andrea, devi ricordare con calma. È chiaro che stanotte sono stato rapito. Sono sceso per aprire il cancello e mi hanno aggredito. Qualcuno mi ha portato via. Avrà usato la mia macchina? Ma chissenefrega della macchina. O forse sì? Quando la trovano, la polizia avrà un indizio. Mi cercheranno subito, vero che mi cercheranno? Un uomo non può sparire così. Saranno già tutti in allarme, i miei colleghi, mia moglie Linda è un mastino, me la vedo a ribaltare la questura.
Gli sfuggì una risatina sardonica, congelata da una fitta alla testa e un attacco di nausea. Si aprì il battente ricavato nella parte bassa della porta, un vassoio lucido scivolò nella stanza, la bocca d’acciaio si riserrò con la rapidità delle fauci di uno squalo. Il manager scrutò l’oggetto sul pavimento. Sul piatto metallico, una tazza e una gavetta con un coperchio. Cavilli si avvicinò gattoni, fece un giro intorno al vassoio. Con la mano destra scoperchiò la ciotola. Fu inondato da una fumata calda, umida e odorosa. Una pastella di vomito e acidi gastrici gli zampillò dall’esofago.
[/four_fifth]