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Sei storie nere: “Bianco latte” di Lorenzo Riopi

    Le storie crime non nascono dal nulla. Alla loro origine c’è sempre l’osservazione della realtà, lo studio della cronaca nera, lo sforzo creativo di riplasmare fatti reali per trasformarli in opere capaci di riflettere sui temi del bene, del male, della giustizia. Nel laboratorio Storie nere. 10 lezioni sul true crime, Luca Crovi ha analizzato alcune opere di autori che hanno attinto alla realtà per dare spessore e fascino alle proprie trame, accanto a esempi di cronaca nera che hanno assimilato le forme, i modi e le atmosfere della narrativa d’autore.

    Alle allieve e agli allievi del corso è stato chiesto di ispirarsi a un fatto di cronaca per scrivere un racconto. La prima storia nera che Luca Crovi presenta su BellevilleNews è Bianco latte di Lorenzo Riopi:

    Molti assassini vivono una vera e propria ossessione per le loro vittime e vorrebbero far raggiungere loro uno stato perfetto. Uno stato che porta gli psicopatici ad avere un maggior possesso e una maggiore possibilità di violazione dell’innocenza. Mi piacerebbe poter dire che questo racconto nero che state per leggere è puro frutto di fantasia, purtroppo è ispirato a un fatto reale. E la precisione meticolosa con cui il narratore ha raccontato gli eventi lo rende ancora più spaventoso.

    ***

    Tre cucchiaini. Uno al mattino e due alla sera, per indurla al sonno. Latte tiepido, a trentasette gradi, stemperato da dieci, quindici gocce al massimo. Usava il laudano i primi giorni, ma era rischioso da procurarsi anche per lui, così finì a raccogliere foglie di stramonio dietro i ruderi del vecchio calzaturificio. Le macerava con cura, traducendole in cataplasmi e tinture, come il buon farmacista che era, le mesceva nella tazzina di vetro. Solo latte, e mai altro liquido, perché il latte è nutrimento, è vita, e di certo non voleva che Silvia morisse.

    Silvia. La dolce, ingenua Silvia. I suoi occhi tondi e verdi – che lo incrociarono un giorno sulle scale del palazzo – lo ossessionavano da mesi. Velati d’un verde crespo, di taglio sottile, malinconici. Perfetti, davvero perfetti, a confronto con la sua figura pesante e imbolsita. Era bella, Silvia, ma non il suo corpo. Oh, no, il suo corpo non era affatto in armonia con quei suoi liquorosi occhi d’opale.

    Un giorno si decise, e fu come un segnale mandato da Dio. Lo disse lei stessa, al figlio dei vicini, mentre giocavano di là dal muro fra i due appartamenti: «Devo perdere qualche chilo, Niccolò. Da domani mi metto a dieta». E il bimbo giù a ridere, magari davanti a una torta al cioccolato.

    Capì che doveva fare qualcosa, aiutarla a ritrovare l’armonia delle forme. Così un giorno la intercettò sul pianerottolo, farfugliò di un nipote a cui poteva servire una babysitter, la invitò in casa per bere latte e scambiarsi i numeri. Silvia doveva tornare dai suoi in Veneto, prendere le ultime cose prima di partire per l’Erasmus, e fu così che agì sul momento, per paura di perderla.

    Tutti i giorni, meticolosamente, prendeva le misure su un taccuino. Giro vita, cosce, polsi, seno, polpacci, anulare: il metro da sarto tangeva punti segnati a pennarello. Il plicometro poi lo affascinava, con quel suo afferrare in profondità la plica di grasso, quasi a volerla strappare dal resto del corpo.

    Al quarantesimo giorno, la penna fremette sulla tabella: altri sedici grammi e sarebbero stati venti chili. Silvia era lì, sul grande materasso arroccato in solaio, immobile e sveglia, silenziosissima, fra il buio di un abbaino oscurato e il fioco lume di una abat-jour. Sottile, finalmente minuta, in quella vestaglia da uomo; gli occhi rivolti al soffitto, opali lucidissime, eteree, perse in una nebbia di scopolamina. Tornato da poco dalla farmacia, ansioso di rivederla, aveva dato uno sguardo d’insieme alla stanza: una mezza dozzina di confezioni di collirio – per mantenere le pupille sempre umide – e poi stracci bagnati per idratarla, mutandine e calzette pulite, lo stampo per dolci che usava come padella, perché temeva che la polizia si sarebbe insospettita se ne avesse portata una dalla farmacia. La lavava con cura, le radeva le gambe, le faceva fare esercizio, sollevando braccia e piegando giunture, affinché non perdessero tono quelle membra che andava ogni giorno asciugando, con tre cucchiaini di latte al giorno. Anche nella pulizia intima sfilava la vestaglia e distoglieva subito lo sguardo: non voleva rovinare tutto con delle stupide pulsioni sessuali.

    Passarono altri venti giorni prima che la polizia mollasse il colpo e iniziasse a fingere di proseguire le indagini. In quella provincia noiosa anche la scomparsa di una studentessa viene presto annacquata nel grigiore e la rabbia di parenti e fidanzati non può certo violare le porte di una casa per bene. Prese a fotografarla: i piedini piccoli ritrovavano finalmente le gambe snelle e le caviglie di bambina, mentre il seno non aveva perduto la sua forma, e anche questo era un segno di Dio. Stai facendo un’opera buona, gli diceva, te ne sarà grata al suo risveglio. Ora è bella ovunque, e armoniosa, ha la proporzione e la grazia, la levità di certe ninfe del mito greco. Il respiro di Silvia, flebilissimo, lo spronava a lavorare tutta la notte, a vincere la battaglia di quel corpo che voleva spegnersi a tutti i costi, e che si giocava sui battiti del cuore, sull’abbassarsi della pressione, sul logorio interno di questo o di quell’organo. In quella sua costrizione fisica, in quella minuta prigione di carne, sembrava che Silvia volgesse la pupilla, di quando in quando, nella sua direzione.

    Passò ancora una settimana a lavorare sullo smalto dei denti e quando fu soddisfatto del risultato, la spogliò nuda. Capì subito di essere di fronte a un capolavoro. La cura nei dettagli – dalla cuticola delle unghie al riflesso setoso dei capelli – aveva superato le sue aspettative. Ora era bella tutta, Silvia, bella come nemmeno lei avrebbe mai sperato di essere. Ne uscì stravolto, quasi pazzo: doveva assolutamente condividerla con qualcuno. Già, ma con chi? Chi avrebbe potuto capire che lo aveva fatto per aiutarla, per scalpellare via la Silvia sciatta, penosamente umana, da quella Silvia ideale che le abitava dentro? La Silvia lieve e soda, angelicata, che non avrebbe più conosciuto insicurezza e mediocrità. Si sarebbe presa la rivincita su ogni innamorato che l’aveva rifiutata, avrebbe avuto decine di ammiratori sotto casa e marchi pronti a ricoprirla d’oro come testimonial e indossatrice. Avrebbe avuto il corpo che desiderava, il corpo che i suoi occhi meritavano.

    Decise che la rete poteva fare al caso suo. Camuffò gli ambienti, la fotografò senza mai inquadrare il volto, la lasciò in intimo, non arrischiandosi ad acquistare abiti femminili. Ben presto fu disgustato da quel branco di porci che la concupivano da dietro la tastiera: avances, battute sconce, inviti a cena e squallide fotografie delle loro parti intime. Bestie davanti a una bistecca, pensava, attratte dal suo corpo e non dall’ideale di perfezione che incarnava. Stava per rinunciare quando, sepolto in mezzo ai grugniti di quei maiali, un certo pecosbill_67 lo colpì: aveva lodato le proporzioni, la pelle levigata dalle frizioni coi suoi molti unguenti. Non capiva il perché, ma sentiva che quell’utente era consapevole di trovarsi di fronte a un’opera d’arte pulsante e viva, alla manipolazione di un agente esterno e non a una di quelle donne che fanno mostra di sé sulla rete. Lo contattò in privato e, dopo giorni di scambi accorti e allusioni discrete, fecero luce su certi aspetti poco soddisfacenti.

    «Diventi ogni giorno più bella. Rasenti la perfezione».

    «Rasento?»

    «Dio ti ha dato tutto ciò che una donna potrebbe desiderare».

    «Ma?»

    «La pelle».

    «Cosa non va nella mia pelle?» scrisse, ferito.

    «Nulla. Ma se io fossi Dio, ti avrei fatta di marmo».

    Già, il colore della pelle. Silvia aveva un incarnato delicato, ma di un rosa acceso, tipico della gioventù in fiore e dei caratteri impulsivi. Discussero sull’usare creme a base di acido mandelico, illuminanti, chiare d’uovo al limone, borotalco. Fece diverse prove, tutte poco convincenti. La pelle schiariva, sì, ma erano trucchetti. Non era più Silvia, era Silvia con qualcos’altro sopra.

    «Fai dei bagni nel latte. Il latte fa miracoli».

    «Come fai a saperlo?» chiese.

    «Su di me funziona» rispose pecosbill, che poco dopo replicò. «Che c’è, mi credevi un uomo?»

    Così si affidò ancora una volta al latte. Il latte più puro, più pregiato della regione riempì diverse bacinelle agli angoli di quel solaio. Faceva lunghe spugnature e lavaggi con creme di latte e sapone alla papaia, operazioni faticose ma necessarie. Le faceva anche dieci o quindici bagni a notte. La pelle si era fatta chiara e più sottile, ma ancora non bastava, entrambi volevano di più. Ambivano a una carnagione diafana, adamantina, da far impallidire una principessa giapponese. Provarono molto altro ancora, finché pecosbill, in una mattina di sole, ebbe un’intuizione.

    Doveva fare molta attenzione, disinfettare bene e non esagerare. Cavare il più possibile, sì, così da togliere colore, ma senza darla vinta a quel corpo che si ostinava a morire. Bacinelle di latte da una parte, sacchette di sangue dall’altra. Fermarne la produzione era impossibile, dunque ogni giorno ne andava cavato. Silvia ogni tanto sussultava, ma erano tremori impercettibili, residui di volontà, giusto un filo di bava sulla guancia levigata. Il pubblico della rete gradiva, i like e i follower crescevano, arrivò persino un’offerta di sponsorizzazione, la mattina in cui Silvia spirò.

    Fu preso subito dal panico e soffocò un urlo dentro il cuscino, ma quando fece per posarlo la vide di nuovo, con più attenzione. Si soffermò sugli occhi, leggermente socchiusi, come se le palpebre avessero voluto forzare, in quegli ultimi attimi, la paralisi muscolare. Scrutando bene la pupilla capì che qualcosa era venuto a mancare. Un luccichio, un tremore. Silvia aveva abbandonato la vita, aveva lasciato andare l’ultima imperfezione. Rise così forte che ebbe paura di farsi sentire dai vicini, rise di quanto era stata patetica quella sua lunga lotta contro polsi deboli e bassa pressione, fin dal principio; rise delle tabelle, delle meticolose misure. Rise così forte che arrivò l’ispettore, e fu facile chiudere il caso, una volta tanto.

    «Non c’è perfezione nell’uomo» pensava, mentre lo portavano via e poi anche dopo, a distanza di settimane. «La perfezione è delle cose, soltanto delle cose».

    Scuola di scrittura Belleville