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Lo scetticismo della fotografia: quarant’anni di “Rumore bianco” 

    Immagine Essential Grid

    Rumore bianco di Don DeLillo compare sulla scena editoriale nel 1985. In breve, tratta la storia di una normale famiglia statunitense alle prese con la propria vita (il lavoro accademico di lui, quello socialmente utile di lei, i numerosi figli e i loro caratteri in via di sviluppo), fino all’arrivo di una nube tossica sopra la loro tranquilla cittadina. L’evacuazione immediata e l’angoscia crescente nei confronti di un pericolo misterioso, non tangibile, obbligano tutti gli abitanti – e in particolare i nostri protagonisti – a doversi confrontare con la paura della morte. 

    DeLillo ci porta all’interno di una dimensione priva di certezze, in cui l’urgenza di comprendere l’entità del pericolo si scontra con lo sfaccettato mondo degli strumenti che l’uomo ha inventato per relazionarsi con l’ignoto. Rumore bianco è la presa di coscienza del naufragio a cui l’uomo è costretto nel mare di “significati abbandonati” e inconoscibili del suo mondo. Nulla tiene più: la realtà diventa un esercizio di fede da qualsiasi punto di vista si scelga di guardarla. L’ottimismo della conoscenza certa non le pertiene minimamente. In questo panorama, Don DeLillo torna con una certa insistenza sul ruolo dell’immagine (e della fotografia in particolare), quasi delegandole il compito di dimostrare quanto friabile sia il terreno delle nostre sicurezze più salde. 

    Già nel terzo capitolo, ci porta a visitare “la stalla più fotografata d’America” (così annunciata dal cartello autostradale). Giunti lì, però, vediamo solo fiumi di gente intenta a fotografare quanto descritto nell’indicazione, impedendoci di vedere la stalla. Il visibile diventa di colpo incerto e irraggiungibile: non possiamo conoscerlo tramite l’esperienza sensoriale diretta. Siamo a tutti gli effetti nell’epoca della mediazione, del sapere indiretto, e quindi, in ogni caso, fallace. “Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla”, dice Murray a Jack una volta preso atto dell’impossibilità di poter vedere quanto stanno immagazzinando decine di obiettivi fotografici. “Vediamo solamente quello che vedono gli altri. […] Come sarà stata questa stalla prima di venire fotografata? […] Domande a cui non sappiamo rispondere perché abbiamo letto i cartelli stradali, visto la gente che faceva le sue istantanee. Non possiamo uscire dall’aura. Ne facciamo parte”. 

    Non basta che il reale sia fotografabile per conoscerlo, talvolta neanche per vederlo. Prima lezione.

    L’epoca in cui scrive DeLillo, gli anni Ottanta, è ricordata per la nuova fiducia (e fede) nei confronti della tecnica, per l’entusiasmo del progresso (o la sua promessa). Grazie alla tecnologia e al mondo sempre più sofisticato e rapido dell’informazione, sembra non esserci più spazio per il dubbio. Tutto è certo e nitido. DeLillo, guardando dall’alto questo atteggiamento, fa crollare passo passo tutti i mattoni della fiducia del suo tempo. Anche guardando alcuni album di famiglia, Jack si accorge che gli sguardi delle persone ritratte tradiscono uno scetticismo “nei confronti di qualcosa che appartiene alla natura della macchina fotografica”. Come se già quelle persone avvertissero prematuramente la fallibilità del mezzo nel descrivere la verità di chi ritrae.

    Arriviamo al capitolo venti. Babette, moglie di Jack, viene ripresa dalla televisione locale mentre è al lavoro. La sua famiglia, la sera, la vede riprodotta sullo schermo. L’immagine che restituisce l’apparecchio è in bianco e nero e muta, e produce un profondo spaesamento nel marito. “Era lei ma non era lei”: di nuovo la realtà risulta inconoscibile quando ci viene presentata attraverso una sua riproduzione, tanto più se fotografica, in cui l’apparente sovrapponibilità tra reale e immagine sembra funzionare alla perfezione. Più che mai, invece, la realtà nell’immagine risulta distante e inafferrabile, un tranello giocato contro i nostri sensi, qualcosa a cui non dover credere per nessuna ragione. “Era soltanto televisione […] e non un viaggio tra vita e morte, non una misteriosa separazione”. Ciò che vediamo sullo schermo non è, in alcun modo, la realtà. Seconda lezione. 

    Quale visione è possibile, allora? Se la visione diretta ci è ostacolata e quella mediata dall’immagine è fallace, quali vie restano? Don DeLillo risponde in modo limpido. Adele T. è una parapsicologa che viene assunta dalla polizia per mettersi sulle tracce di due persone scomparse. La donna entra in trance, li vede, li localizza, la polizia li trova al primo colpo. La verità è visibile (eccome se lo è) ci viene detto: ma solo da chi ci riesce. Terza lezione. 

    Dunque dubitare è l’unico approccio possibile per districarsi nella rete in cui siamo avvolti, per capire qualcosa di ciò che accade. Don DeLillo sottolinea come il mondo sia una materia quasi inconoscibile, e che riposarsi all’ombra di una qualsiasi fede sia tanto necessario quanto, sostanzialmente e tragicamente, inutile. 

    Il dubbio è l’unico limbo in cui chi cerca qualcosa di certo può e deve avventurarsi e rimanere. “Che Armageddon fosse proprio questo? Nessuna ambiguità, niente più dubbi”. Lo scetticismo è il triste angolo visuale concesso a un’umanità che ha desiderato autoconfinarsi nel pigro mondo dell’apparenza. Naturalmente la tecnologia rappresenta l’apice di questa fede fallimentare. 

    Quando Jack va in una clinica per sottoporsi ad alcuni esami medici, di fronte alle sue perplessità circa i risultati ottenuti, il dottore ha dalla sua l’arma più raffinata del suo tempo: attrezzature in grado di ottenere “immagini chiarissime”, “le foto più chiare che sia umanamente possibile”. Sono i pixel ormai a contenere la verità di un organismo, come di qualsiasi altra cosa. Vediamo attraverso e in funzione di essi, anche la frutta al supermercato è colorata “come la frutta a quattro colori di un manuale di fotografia”. L’immagine diventa non solo il paragone eletto col quale poter decifrare il visibile, ma è anche la gabbia dalla quale l’uomo postmoderno non riesce in alcun modo a uscire. Se lo dice l’immagine è vero, e il vero, per essere tale, deve corrispondere alla sua riproduzione. Non a caso il Dottor Gray diventa più nitido agli occhi di Jack durante il loro incontro proprio quando le immagini nello schermo del televisore iniziano a tremolare. 

    Anche la suora che incontra Jack verso la fine del romanzo dà il colpo di grazia a qualunque appiglio rimasto, ribadendo più volte la propria totale assenza di fede: “Ma senti questo testone, che viene qui a parlare di angeli. Me ne faccia vedere uno. La prego. Voglio vedere”. In un mondo in cui la fede crolla e ogni altro suo surrogato si rivela essere inutile, la finzione diventa la vera devozione – “è il nostro compito nel mondo credere in cose che nessuno prende sul serio”, dice la suora – e allo stesso tempo l’unico piano su cui ci è concesso muoverci. 

    In fin dei conti non importa. Forse il bello è proprio questo non sapere, vivere l’incerto come il divenire in cui le cose accadono, prevedibili e inaspettate a un tempo. Di fronte a un tramonto molto scenografico, possiamo anche noi ripeterci quanto pensa Jack: “Mentre guardiamo, siamo pieni di meraviglia oppure di terrore, non sappiamo che cosa stiamo guardando né che cosa significhi, non sappiamo se sia un fatto permanente, un livello di esperienza al quale a poco a poco ci adatteremo, in cui la nostra incertezza finirà col venire assorbita oppure soltanto una bizzarria atmosferica, che passerà presto”.

    La verità si nasconde. A meno che non si sia in grado di entrare in trance e vederla, bisogna forse accettare il mondo come uno spettacolo a cui non dover fare troppe domande.  

    Carola Allemandi

    Carola Allemandi (Torino, 1997) è fotografa e autrice. Dal 2019 espone in mostre personali e collettive in gallerie e musei italiani. Nel 2021 vince il Premio Zenato Academy e realizza le immagini per il libro d’artista Anatomia Umana di Salvatore Astore. Scrive di fotografia per varie testate.