Vai al contenuto

I commenti di Giacomo Raccis ai racconti di TYPEE/4

    Dal 14 maggio al 4 giugno Giacomo Raccis, “Il critico che legge”, commenta i racconti di TYPEE in quattro brevi pillole video, esaminando nei dettagli struttura, stile e tenuta narrativa, suggerendo parallelismi e offrendo consigli.

    Il capitolo precedente de “Il critico che legge” è qui.

    Capitolo 4

    > Rodolfo, di caio bongiorno

    Dopo tanti anni mi chiamo di nuovo Rodolfo. E vedo la luce, finalmente. Mi ha trovato un ragazzo alto, scuro di capelli. Lo ricordo vagamente. Mi colpì quel suo giubbotto rosso. Luccicava al sole. Che bello che oggi fosse venuto a camminare qui, e a vedere il sole che splende sull’Adamello. E i colori dell’autunno, i profumi, i suoni. Come il bramito del cervo, che ferma il cuore all’ascolto. Anche il cannone lo faceva.
    La trincea era gonfia di odori quando la lasciammo alle nostre spalle. Insicuri, perché era la nostra casa ormai. Era lì che parlavamo, ci sentivamo respirare e leggevamo lettere e cartoline che arrivavano da lontano. E ne scrivevamo. Tenevamo l’uno all’altro, contandoci ogni sera, per immaginare un futuro insieme.
    Non fu per coraggio che ci muovemmo, erano gli ordini.
    Ci proteggeva l’ombra. E il freddo della notte, spinto dal vento, ci mutilava il viso. Piantammo una tenda, andare avanti non era possibile. La fissammo a terra col gelo nelle ossa e le gambe che sembravano ormai estranee al nostro corpo, come se una orribile e feroce belva le avesse azzannate e portate vie da noi. Le dita non rispondevano più e i contorni del viso dei miei compagni sfumavano, fino a scomparire nel buio.
    Ah, che bello fermarsi. Dall’inizio era stato tutto un andare, trascinare pesi. Sempre stremati, senza neanche avere il tempo di raccogliere i pensieri, immaginare. Solo l’ansia di sopravvivere. A volte pensavo ai ciliegi che a Besana, il mio paese, mi accompagnavano fino a casa. Enormi. Me li ricordo fioriti. Chissà perché i ciliegi. E non i casolari, ad esempio. O le tavolate con gli amici e i parenti.
    Rodolfo! Ecco, però ricordo sempre quando mi chiamavano per nome. Rodolfo ero io, era il suono che mi faceva appartenere alla mia gente e mi dava vita all’udirlo. Quando lo pronunciavano mi sentivo di esistere, appeso al mondo. Qualcuno mi aveva pensato, o mi cercava. Voleva di me, ero nei suoi pensieri e nel suo presente. Che bello essere evocati. Sembra, in quei momenti, che il tempo si fermi e attenda te per continuare a scorrere. Che sgomento poi quando quel suono del mio nome era accompagnato dalla gioia, dalla sorpresa, dallo stupore. E apriva gli occhi di chi lo muoveva sulle labbra.
    Il suono della valanga invece fu un rumore lontano, sordo. Si avvicinava crescendo. Un rombo pauroso, sempre più cupo e violento. Fu un niente finire nel nulla, trascinato con forza scomposta nel canalone e inghiottito dalla terra. E fu un niente fino ad oggi. Un tempo che non so, un tempo relativo.
    Mani premurose frugarono nell’astuccio di tela che portavo sempre nei miei indumenti. Custodiva i miei contatti col mio cosmo lontano. E la posta da campo e i miei documenti riemersero alla luce. Qualcuno li lesse. Rodolfo! Mi richiamò il mio nome, e credetti subito di percepire l’odore dei ciliegi in fiore. Per poco ancora, ma per attimi intensi che sembravano eterni, il vento raccoglieva di nuovo la mia storia. Mi sembrò attraversare fresco le mie narici, aprire il mio respiro, riempirmi i muscoli e riportarmi a guardare la vita. Fino a riposare di nuovo nel nulla.



    > Uno di quelli, di Stefano Adesso

    “Puoi chiedermelo, sceriffo. Sto bene”.
    “Sembri tranquillo”.
    “Infatti”.
    “Com’è andata nelle ultime settimane?”.
    “Ho fatto il bravo. Non capisco che bisogno c’era di togliermi anche quei due libri”.
    “Hanno paura che ti faccia del male. C’è chi si è tagliato le vene con le pagine della Bibbia”.
    “Non ci sarei mai riuscito, comunque. Non ho tutta quella manualità”.
    “Meglio non rischiare. Per cena, allora, cos’hai deciso?”.
    “Gamberi fritti”.
    “Nient’altro?”.
    “Pomodori verdi per contorno. E poi una fetta di torta di noci”.
    “Pecan?”.
    “Sì”.
    “Buona. Per un periodo ci facevo colazione tutte le mattine, in un diner sulla 53. Quando lavoravo nel distretto di Harvest”.
    “E poi? Ti hanno trasferito?”.
    “No. Una mattina mi sono svegliato, e al pensiero di torta avevo la nausea. Da quel momento solo caffè”.
    “Io l’adoro, davvero. La preparava sempre mio zio, con le noci che rubava in uno dei campi della Suppliers. Partiva con la macchina e tornava tutte le volte con un sacco pieno”.
    “Non dovresti raccontarmi queste cose, soprattutto se tuo zio vive ancora nella contea”.
    “Eh no, ci ha lasciati da un po’. E poi coi Wilson hai già dato abbastanza, o vuoi metterci dentro tutti, sceriffo?”
    “No. No, hai ragione”.
    “Ecco. È sempre stato il mio dolce preferito, comunque”.
    “Potevi chiederne un’altra fetta allora. Se vuoi ci penso io”.
    “No, una va bene. Non vorrei svegliarmi domani e avere voglia solo di caffè”.
    “Non pensavo di trovarti in vena di scherzare”.
    “Perché? Mi comporto come ti comporti tu”.
    “Cioè?”.
    “Faccio finta che non stia per succedere”.
    “Non ero sicuro che ne volessi parlare”.
    “Non posso non farlo. Come vedi, anche solo dire domani fa ridere. Sei tu che puoi scegliere, sceriffo. Vuoi parlarne?”.
    “Se ne hai voglia, certo. Come ti senti?”.
    “Te l’ho detto, sono tranquillo”.
    “Nient’altro? Non vuoi allungare le mani e strozzarmi?”.
    “No, va bene così. Sono due cose diverse. Non sono uno psicopatico. Tu hai fatto il tuo lavoro, sceriffo, esattamente come io dovevo fare il mio”.
    “Il tuo non era lavoro, Ted. L’hai-”.
    “So cosa le ho fatto”.
    “E non ti piace riascoltarlo?”.
    “No. Era una cosa tra me e lei. Così ci fai solo la figura del guardone, sceriffo”.
    “Lei la pensava come te?”.
    “Non la conoscevi”.
    “No, ma tu sì. Non riesci a metterti nei suoi panni nemmeno oggi?”.
    “È che io so com’è andata”.
    “Anche io so com’è andata, Ted”.
    “Tu sei sposato, vero sceriffo?”.
    “Sì”.
    “Qual è la cosa che ti piace di più di tua moglie?”.
    “Non so. Ritrovarla a casa ogni sera, credo”.
    “Intendo quella che t’ha fatto girare la prima volta a guardarla, prima ancora che sapessi il suo nome”.
    “Ah… beh, aveva un bel culo”.
    “Immaginavo. Quindi sei di quelli a cui piace il culo”.
    “Fai attenzione”.
    “No no, tranquillo. Maggie era una bella ragazzina, credimi, sarebbe diventata anche lei una gran bella donna. Però ne conoscevo di più belle e già formate”.
    “Quindi? Di che diavolo stai parlando?”.
    “Prova a immaginare, sceriffo. Un’estate cresci, e scopri che ti piace toccare i culi, i culi fatti proprio come quello di tua moglie. Ti dici ‘Va bene, devo solo trovarne uno’. E lo trovi. Quello ricambia. Anzi: è proprio innamorato di te. Cosa fai a quel punto?”.
    “Anche solo ascoltarti mi fa sentire sporco”.
    “Ok. Ma quello che dico è che magari ti viene in mente che è fatta, devi solo trovare il momento giusto. Ed è allora che scopri che non puoi. Che esiste una legge federale che ti vieta di toccare il culo di tua moglie. E se lo fai, finisci qui, come il sottoscritto”.
    “Non è questione di leggi, Ted. Ti sembrerà assurdo ma la legge per puro caso tutela anche quelli come te. Fin quando la rispettate, vi fa sembrare quasi come tutti gli altri”.
    “Esatto! Bravo, sceriffo. D’altronde non sono stupido, nessuno vorrebbe finire qui dentro. È quello che ho fatto io, per anni. L’ho rispettata. Ma metti che una sera… una sera ad esempio tu e tua moglie siete vicini, appiccicati, sul retro della tua… che macchina hai?… Vabbè, facciamo che ti vuoi proprio divertire e sei andato a prenderla con l’auto di servizio”.
    “Ma cosa cazzo stai dicendo”.
    “Scherzo. Siete tra i campi di tabacco a sud, vicino al Flint River, non dirmi che non ci sei mai stato. Completamente soli. Tu hai una mano sulla sua schiena. Vuoi farmi credere che non provi a scendere giù, almeno un po’, anche solo per sentire cosa si prova a toccare quella che è, a tutti gli effetti, TUA moglie?”
    “Tu non hai la minima idea, Ted. Davvero”.
    “Sì che ce l’ho. So perfettamente cosa ho fatto. Proprio per questo non ho bisogno di nasconderlo”.
    “Stai per morire. L’hai capito almeno questo? Davvero non riesci a pensare a qualcosa di diverso da questi deliri?”.
    “Non riesco a pensare a una cosa migliore, sceriffo. Ci ho ragionato a lungo”.
    “Ero venuto qui credendo avessi bisogno di rassicurazioni”.
    “Questo mi fa piacere, davvero. Ma le ho già trovate tutte”.
    “In un certo senso anch’io. Ora sono sicuro di non essermi sbagliato”.
    “Sono felice. In fondo si tratta solo di due modi diversi di affrontare le cose”.
    “No. Non esiste un altro modo. Ce n’era solo uno. Lei sarebbe ancora viva, tu non staresti per finire con un ago nel braccio, e io riuscirei ancora a fare colazione. Vorrei essere arrabbiato in questo momento, ma non mi riesce nemmeno quello”.
    “Non sforzarti allora, sceriffo. Ti auguro di ritrovare l’appetito”.
    “Goditi l’ultima cena, Ted”.



    > Melampo, di Chiara Pesenti

    Sfido chiunque a dire chi sono. Su, non fate finta di saperlo. Non lo sa mai nessuno.
    Tutti si ricordano del grillo, del gatto, della volpe , dei ciuchi e perfino del pesce-cane, ma di me, un cane, appunto, e dunque, almeno in teoria, il migliore amico dell’uomo, non si rammenta nessuno.
    Ammetto di non essere mai stato un eroe, uno che si fa notare per forza, e di aver sempre amato il quieto vivere. Quando ho scoperto che le faine rubavano dal pollaio del padrone, avrei voluto denunziarle, abbaiando furiosamente. Il padrone sarebbe uscito, in camicia com’era, e “pum, pum!” con quattro schioppettate le avrebbe fatte fuori in un lampo. Io, ad andar bene, avrei avuto una pacca sulla testa e un tozzo di pan secco in più nella ciotola.
    Le faine, invece, mi hanno dato una pollastra intera, in cambio del mio silenzio, e così ogni settimana, per anni. Era il nostro piccolo segreto.
    Se quel burattino non avesse preso il mio posto, dopo che ero morto, nessuno lo avrebbe mai saputo, e io avrei ancora la mia reputazione intatta.
    Via, il gatto e la volpe non eran forse peggiori di me? Truffatori di professione, ecco cos’erano! E tutti quei perdigiorno trasformati in ciuchi, che hanno causato tanto dolore ai loro babbi e alle loro mamme?
    Io sono solo stato zitto. Dormivo. Avevo anche una certa età, dopo tutto.
    Ma la colpa di questo oblio, di questa sorta di damnatio memoriae, non è del burattino, lui ha tenuto la bocca chiusa, ché non si parla male dei morti, ha detto.
    La colpa è di Walt Disney, che non mi ha disegnato nel suo film, e di tutti quelli che sono convinti che Pinocchio l’abbia inventato lui.

    I commenti sono chiusi.

    Giacomo Raccis

    Ricercatore universitario. Si occupa prevalentemente di romanzo italiano contemporaneo, di racconto breve e di interazioni tra letteratura e arti visive. Ha studiato a lungo l’opera di Emilio Tadini, di cui ha curato la raccolta "Quando l’orologio si ferma. Scritti 1958-1970" (il Mulino 2017) e su cui ha pubblicato la monografia "Una nuova sintassi per il mondo. L’opera letteraria di Emilio Tadini" (Quodlibet 2018). Ha scritto anche "La trama" (Carocci 2018), breve manuale sull’evoluzione dell’intreccio nei romanzi occidentali. Tra i fondatori de La Balena Bianca, ha collaborato anche con Doppiozero, cheFare, L’indice dei libri del mese, Le parole e le cose e altre riviste cartacee e in rete.