1. Fare tanto con poco, anzi pochissimo (anzi, il minimo)
Mentre scrivi sei solo, ma sulla pagina siete sempre in due – tu e il tuo lettore. Chi lavora di più? Chi si sbatte? La proporzione varia da paragrafo a paragrafo, perfino da una frase all’altra. Il punto è come e se questa fatica viene distribuita. Vediamo un esempio di come far lavorare chi legge. Da Una specie di solitudine di John Cheever:
E così domani vado a Boston a seppellire mio fratello.
La situazione narrativa è perfino elementare: c’è un personaggio che il giorno dopo deve cambiare città per presentarsi al funerale del fratello. Potremmo riscriverla da qualsiasi verso (ero distrutto, l’indomani col primo volo sarei dovuto partire…), da una prospettiva a piacere (John non andava a Boston… da quanto? pensò. E adesso…). Cheever sceglie una specie di grado zero. Rileggiamo la frase: non c’è un termine del lessico sentimentale, nemmeno uno. E non importa che si tratti di un diario, la frase è potente: ci senti subito la rassegnazione, o anche la stanchezza (E così), ci senti una certa ansia affidata a quel domani, e poi un dolore sordo, la bianca apnea del lutto. Il nome della città rende la situazione immediatamente, tragicamente reale. L’assenza di vocabolario emozionale rafforza quel verbo, seppellire, ne mette in risalto il sapore definitivo. Tutta la frase è un palcoscenico allestito per seppellire. Ma come riesce Cheever a infondermi questo senso di apnea luttuosa senza nominare nessuno dei termini-chiave che uno scrittore mediocre si affretterebbe a usare? La risposta è: facendo lavorare me. Sono io che colgo la rassegnazione e la stanchezza dentro il così, e sono sempre io a recepire la frase come una discesa senza ossigeno. Cheever qui opera il minimo indispensabile, si fida di me che leggo, lascia a me quasi tutto il lavoro. Il rigo si distende placido, eppure senti una sottrazione – come se la frase cancellasse qualcos’altro, qualcosa che Cheever non si è nemmeno dato la briga di far apparire.
Si chiama gioco di prestigio, e naturalmente non si può fare sempre così. Una buona scrittura è senz’altro il risultato di un’accorta valutazione delle forze in campo: qui faccio lavorare di più il lettore, qui devo lavorare più io. È un cruccio letterario antico. Oggi non siamo messi troppo bene. Proliferano scrittori autarchici che sulla pagina ti sbattono in un angolo, creano narratori dittatoriali che devono dirti tutto loro, non ti lasciano mai il giusto spazio di manovra. Per fare cosa? Be’, schierarti, per esempio. Per decidere da te come giudicare i fatti che vedi svolgersi sulla pagina. Sono scrittori che vogliono intestarsi la totalità del lavoro. Nel migliore dei casi una scrittura autarchica produce didascalia a fiotti. Nel peggiore, è una forma di censura. Il che ci porta al punto due.
2. Fammi sentire intelligente (almeno quanto te)
In narrativa, la guerra alla didascalia non ha mai fine. Se pensiamo la scrittura – come vi sto invitando a fare – in termini di sforzo distribuito sulla pagina, ci rendiamo subito conto che la didascalia può annidarsi ovunque, soprattutto quando lo sforzo va in una sola direzione. Spiegare, sottolineare, ridondare, sono gli atteggiamenti tipici di uno scrittore che non si fida del proprio lettore, e il risultato è più o meno sempre uguale: si finisce per accollarsi tutta la fatica lasciando a chi legge l’illusione di partecipare, quando invece gli stiamo assegnando il più passivo fra i ruoli.
Già in Lector in fabula (1979) Umberto Eco sosteneva che il testo fosse un “prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo”, che poi è in parole sofisticate ciò che vi sto invitando a fare qui: pensare la cooperazione fra scrittore e lettore come una forma quantificabile paragrafo per paragrafo, vale a dire: una strategia. La guerra alle didascalie si combatte per questo: guadagnare in autorità, imparando a lasciare il giusto spazio a chi legge (de te fabula narratur, ma soprattutto cum te).
Perché in fondo la didascalia è come la spiegazione di una barzelletta, può condurre soltanto a due situazioni:
- la barzelletta l’ho capita, se me la spieghi mi sento preso per scemo;
- la barzelletta non l’ho capita, e allora è peggio: mi sento scemo sul serio.
Nessuno scrittore sano di mente vorrebbe schiaffare il proprio lettore in una situazione del genere. Questo non vi metterà comunque al riparo: nell’analogia il vostro testo è la barzelletta, e purtroppo là fuori è pieno di barzellette stupide. Quindi dovete scegliere se scrivere un bel libro riducendo al minimo i momenti didascalici, scrivere un bel libro afflitto da momenti didascalici, o scrivere un libro di merda pieno zeppo di momenti didascalici – fermo restando che un libro di merda privo di momenti didascalici dev’essere ancora scritto. Raffinando ancora di più la nostra analogia testo/barzelletta: dovete decidere se far ridere, se far ridere i polli, oppure ucciderli a colpi di didascalia. Usate quest’ultimo come parametro-guida: non appena il vostro paragrafo inizia a somigliare a un’ecatombe aviaria è il caso di rivedere qualcosa.
3. Espressivo non vuol dire espressionista
Prendiamo un incipit giustamente molto discusso e celebrato, Martin Amis, L’informazione:
Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste.
Ancora una volta, è il verbo che regge tutto: fa vibrare la frase ma s’incarica pure di ciò che Amis delega al mio sentire specifico. L’originale suona un po’ diverso, più gonfio: Cities at night, I feel, contain men who cry in their sleep and then say Nothing – l’inciso “I feel” nella traduzione di Gaspare Bona scompare, e il testo direi che ci guadagna – sì, sto dicendo che la traduzione è meglio dell’originale. Dentro una lingua elettrica e pulsante come quella di Amis, contenere è l’ultimo verbo che uno potrebbe aspettarsi: me lo sono ripetuto per un sacco di tempo. Sbagliavo. L’uso di un verbo neutro in un contesto così marcato dal punto di vista sentimentale – la rappresentazione del maschio quarantenne in crisi negli anni Novanta – è tratto distintivo della sua elettricità. Intanto perché evita di personificare (quanti scrittori avrebbero scritto: le città allattano, le città umiliano, le città irretiscono o una qualsiasi variante espressionista). La scelta di non personificare invita il lettore a scegliere d’istinto che colore dare a contengono. Amis è un illusionista, come Cheever. Sta parlando di alienazione? Le città come scatole. Sta parlando di omologazione? E tutto questo vale solo di notte? Che fine fanno gli uomini di giorno? Cosa viene a contenerli? Siamo sicuri che siano loro a sognare? Che razza di prodotto sono questi uomini contenuti da contenitori-città? E se le città li contengono, che cazzo combinerebbero in campagna?
Potrei continuare, tanta ricchezza dipende dal fatto che lo stile di Amis funziona su accurati trasferimenti di carico, poco avanti ecco il protagonista, Richard Tull: “tirò su con il naso in maniera complicata, orchestrale”. Che bello quando uno scrittore ti affida tutta questa roba (il linguaggio spiazzante, l’aggettivazione inattesa, la iunctura incallida). Le frasi di Amis dicono: pensami. Ripetimi e ripensami, mettici del tuo, avanti. Che poi è il motivo per cui i grandi scrittori si rileggono.
4. Pensare il lettore come un pilota
Posso far lavorare il lettore a sua insaputa? Sarebbe il massimo traguardo. Si sente dire spesso di scrittori abili nel “mascherare” lo sforzo compositivo che regola il fraseggio (La Capria e lo stile dell’anatra: le zampe frullano ma in superficie vedi solo la scivolata imperturbabile), ma come faccio a nascondere al lettore la percentuale di lavoro che gli assegno?
Si può, a patto di concepire il testo come una macchina. In un certo senso noi siamo i preparatori della macchina e il lettore è il pilota. L’importante è capire che le macchine non si guidando solo col volante, ma con acceleratore e freno: sono le variazioni di carico che ti fanno pennellare una curva alla perfezione o ti spediscono inesorabilmente fuori strada. Scrivere è preparare la macchina, non guidarla. Gli scrittori non incorrono nel reato di didascalia perché sono scemi, didascalia è il modo (per qualcuno il metodo) in cui uno scrittore impone la propria signoria a una frase, a un paragrafo, a una pagina. Da cui quel senso di strazio. Il lettore è esautorato. La macchina va a sbattere contro un muro.