A qualche mese dall’uscita in libreria del suo romanzo d’esordio per Fandango, abbiamo chiesto a Mattia Tortelli, che a Belleville ha frequentato il corso di editing “I mestieri del libro”, di rispondere a alcune domande su Solo i santi non pensano.
1. Che personaggio è Gabriele e come evolve nel corso del romanzo?
Gabriele è un personaggio fratto, un protagonista vulnerabile, immerso nel silenzio e nei pensieri che accompagnano le sue giornate. Vive da solo, in una casa piena di piante, ha trent’anni e non è certo che quello che sta facendo, rispetto alle relazioni e in ambito lavorativo, sia la cosa giusta. È insicuro e si fa domande, a tratti troppe. Si rifugia nei ricordi per sopravvivere a un presente nel quale non si sente all’altezza. Ricorda l’infanzia serena con il padre, morto quando lui era piccolo, e gli anni nella setta con la madre, con la quale non parla da dieci anni dopo la sua decisione di fuoriuscirne. È un personaggio che sento molto vicino, molto reale, che vive esperienze con le quali mi confronto ogni giorno.
Nel corso del romanzo la sua evoluzione non è completa, anzi, uno dei temi centrali che volevo raccontare in questo libro è la mancata formazione che il protagonista subisce, una violenta ma silenziosa privazione dei desideri e dei progetti. Eppure, in questa impossibilità di evolversi veramente, quello che fa Gabriele è continuare a fidarsi in qualche modo del mondo, non smettere di rispondere ai richiami all’avventura, alle possibilità che le cose della vita gli portano. Volevo che il mio protagonista, anche se questo l’ho capito scrivendo, abitasse la possibilità con una base di disillusione ma comunque con una certa dose di speranza. Nel suo processo di santificazione, Gabriele scoprirà che essere umano è l’unica soluzione che ha, capire come farlo sarà il progetto che comincia con la terza parte del romanzo e continuerà anche dopo la fine delle vicende raccontate grazie alla fiducia che il lettore riporrà in lui.
2. In quali aspetti del protagonista ti riconosci di più e in quali invece domina l’elemento d’invenzione?
Credo che il domandarsi quanta distanza ci fosse tra me e il mio personaggio sia stato il processo più complesso. Quando si fa autofiction, il meccanismo è evidente, agito, quando si raccontano storie altre, invece, vedersi filtrare in alcuni elementi, caratteristiche, preoccupazioni dei propri personaggi è stato a tratti straniante. Indubbiamente, lo stare continuamente nei pensieri e il desiderio di non pensare è qualcosa che mi accomuna al mio protagonista. Il titolo del libro è in questo senso una condanna e una promessa di speranza, in quanto, se è vero che Gabriele fallisce il processo di canonizzazione e si ritrova estremamente umano, a dover fronteggiare pensieri e ricordi, è anche vero che proprio questo suo pensare e ricordare è un processo che lo tiene in vita. Anche l’essere visto come un bambino fragile, la sua infanzia al mare, alcuni dei personaggi che lo circondano, sono cose che ho vissuto, che conosco e che sono entrate in questo romanzo. Infine, direi che anche l’idea di famiglia che Gabriele scopre è riflesso di una consapevolezza alla quale sono arrivato e nella quale credo.
Il resto è finzione, costruita ai fini della narrazione: il coraggio di cambiare, la forza del perdono, la rabbia come motore di futura costruzione invece che di distruzione. Gabriele si muove in un mondo immaginario che mi è molto distante, ma che mi è servito per raccontare che il crollo dei mondi conosciuti non è la fine dei mondi possibili, ma una speranza che ne esistano altri, nuovi e inesplorati.
3. Fin dalle prime pagine di Solo i santi non pensano appaiono molte piante: affollano la casa di Gabriele, crescono nella serra di sua zia, nel vivaio del vecchio Peppuccio… quale ruolo ricoprono le piante e, più in generale, l’universo vegetale all’interno del tuo romanzo?
L’universo vegetale all’interno del romanzo ha diversi significati, dai più immediati a quelli più metaforici. Sicuramente, in prima battuta, le piante sono l’Eden che il mio protagonista si costruisce essendo stato cacciato da quello della setta. E, in questo senso, la fatica di costruirsi un giardino sulla terra scegliendo le piante con cura è una rivendicazione di esistenza a prescindere da quella promessa di eternità così vincolante.
Ma le piante sono anche l’insegnamento ricevuto dalla zia, sorella di sua madre, altro legame con il passato. E, nel presente, sono un mezzo per continuare ad allenare e a sviluppare il prendersi cura: le piante sono esseri viventi all’apparenza “semplici” in fatto di bisogni e questo rassicura Gabriele nella sua paura del fallimento nelle relazioni.
Le piante, infine, nel loro metodo di riproduzione per talea, sono metafora portatrice della domanda “quanta pianta madre c’è in una pianta figlia?” e quindi sviluppano la riflessione del legame genitore-figlio, in particolare quello madre e figlio appunto.
4. Come hai lavorato al testo insieme alla tua editor? Ci sono aspetti del romanzo che ti sono diventati più chiari (o che hai messo a fuoco per la prima volta) grazie al confronto con lei?
Con la mia editor ho lavorato in modo molto sistematico all’inizio. Partiti dall’idea e dai nuclei tematici ho sviluppato una sinossi, poi una divisione in libri e poi una in capitoli. Abbiamo chiarito i personaggi, le relazioni che ci sarebbero dovute essere, il perché e il senso dei movimenti di ognuno di loro. Abbiamo, insomma, costruito molto mentalmente e poi schematicamente prima di arrivare alla scrittura. Quando poi è arrivata la pagina bianca, invece, è stata una stesura senza interventi massivi, qualche aggiustamento rispetto ad alcune incoerenze o al senso che avrei voluto dare rispetto a quello che risultava al lettore. Infine, a prima stesura completata, è arrivato l’editing vero e proprio, fatto prima per libri e poi capitolo per capitolo. È stato molto interessante lavorare per la prima volta filtrando la mia scrittura attraverso questo processo.
Ognuno dei passaggi, dalla progettazione, alla stesura e infine all’editing, ha chiarito diversi aspetti del romanzo. La progettazione iniziale mi ha aiutato a mettere a fuoco la direzione che avrei voluto prendere. E poi, durante la scrittura, l’andamento che ho dato alla storia e i momenti di consapevolezza che i personaggi hanno durante il loro sviluppo mi sono ulteriormente serviti per comprendere più a fondo diversi aspetti del romanzo prima, e di me stesso poi. Più di tutto, però, è stato rivelatore per il senso della storia il finale: il dialogo che arriva con la madre è stata la “rivelazione” più sorprendente perché sapevo che quel momento sarebbe arrivato, ma lo snodo fondamentale di cosa lei gli avrebbe detto è apparso chiaro scrivendo, e questo mi ha rivelato il senso profondo che la mia storia aveva rispetto i ruoli e, in un certo senso, mi ha liberato e fatto comprendere che il romanzo era concluso.