A poche ore dall’inizio di 2084-Storie dal futuro, il nuovo festival ideato e organizzato da Belleville in programma venerdì 17 e sabato 18 giugno all’EastRiver Martesana, abbiamo chiesto a due dei curatori, Matteo De Giuli e Nicolò Porcelluzzi, di rispondere ad alcune domande.
1. In Medusa, la newsletter prima, il saggio edito da Nero Editions poi, affrontate i temi legati al futuro e alla crisi ambientale mescolando approcci e discipline diverse: letteratura, divulgazione, filosofia, antropologia, analisi geopolitica. Che valore assegnate alla rete di saperi di cui si nutre il vostro lavoro e di cui anche il festival è una manifestazione? E quale contributo può dare il “racconto cubico”, come lo avete chiamato, della letteratura?
Questa rete di saperi, che riusciamo a tessere più o meno seriamente o saldamente, ci aiuta a ricostruire la complicata interconnessione su cui regge l’emergenza climatica, e in generale potremmo dire l’intera realtà che ci troviamo a vivere oggi: i riflessi scientifici, politici, psicologici e culturali. Ci siamo conosciuti come redattori di una rivista enciclopedica (Il Tascabile, di Treccani), l’obliquità della nostra ricerca è la stessa dei nostri interessi. Per fortuna, come scrittori, non ci viene richiesto di sviluppare il prototipo ideale per la cattura della CO2 dagli impianti industriali, o il pannello solare più economico… Ci interessa raccontare l’Intreccio infinito di questo problema, sperando di cambiare la mente di chi ci legge, come potrebbe fare una sostanza. È qui che entra la letteratura: il suo scopo, anzi il suo gioco, è annegarci nelle contraddizioni. Raccontare storie di formazione e di autodistruzione, indagare gli impulsi e ordinare i pensieri.
2. Se le storie sono “tecnologie di adattamento” utili a forgiare legami sociali e sistemi valoriali dalle ricadute concrete, cosa ci dicono le storie di oggi – zone cieche comprese – del domani che si prepara?
Dipende da dove si guarda. I mass media raccontano un mondo desolante, non per forza attraverso quello che mostrano (pandemie, guerre, democrazie parlamentari spaesate) ma, appunto, per come lo raccontano; un modo desolante. Le persone vengono trattate come dei bambini, a volte c’è il sospetto che non sia nemmeno una scelta editoriale ma l’espressione di una visione del mondo, di una stupidità fondamentale, che è ancora più pericolosa. Però ci sono anche storie meno deprimenti, comunità che si ribellano, proteste vive, come quelle di Extinction Rebellion (per fare un nome) che abbiamo raccontato nel libro. Le storie che preferiamo sono quelle polifoniche, a più voci, voci che ne contengono altre e si fanno contagiare.
3. Storicamente la narrativa di genere e la fantascienza in particolare hanno contribuito a dar voce a punti di vista eccentrici e marginali. Lo stesso fa oggi Tiziano Scarpa quando recita l’elogio della pianta di arachidi o della caffettiera. Quali angolazioni, generi narrativi o autori vi sembrano dotati di maggiore vitalità e carica trasformativa?
Per paradosso, spesso troviamo la vitalità di cui abbiamo bisogno nelle opere di persone morte da tempo. Ce ne siamo accorti scrivendo il libro, negli anni avevamo letto e citato soprattutto autrici e autori del Dopoguerra italiano, da Paolo Volponi a Anna Maria Ortese, Calvino e Meneghello… Insomma, gente che a vent’anni si era trovata nell’incubo della Seconda Guerra Mondiale e che, scesa la polvere e rimaste le macerie, si è trovata a fare i conti con quella che oggi viene detta Grande Accelerazione, e che da noi si è sempre detto Boom, una trasformazione economica che ha portato a una metamorfosi sociale, culturale, uno scrittore famoso, già all’epoca, diceva: antropologica. Anche oggi ovviamente ci sono firme che ci sembrano portare avanti quella “carica trasformativa”: possono venire dal nostro canone contemporaneo, come Tiziano Scarpa, che siamo molto felici di ospitare al festival, come Walter Siti, o da scrittori e scrittrici emergenti e che scrivono e vivono fuori dall’asse euro-statunitense, ma gli stimoli possono venire anche da altri luoghi ancora, dai laboratori delle scienze dei materiali, per esempio, come ci ha dimostrato in questi anni Laura Tripaldi. È tempo di voci ibride, ma non per ragioni editoriali, economiche: quelle stanno soltanto provando a inseguire una realtà che ci chiede di essere raccontata in altre lingue.
Il programma completo del festival è qui.